
Che cos’è la poesia? Contro gli Evans Pritchard di ogni tempo, stiamo ancora dalla parte del professor Keating
Politica culturale
Alessio Magaddino
In un’intervista ha detto: “Vado verso lo spirituale – non posso fare altro – non posso ritrarmi”.
Come se si potesse fare altro.
In una poesia, Jean Valentine ha scritto che l’anima, sconosciuta a tutti, cammina a lungo, lungo evi e pianure, nel didentro. Esperienza significa sprofondare. Anima vuol dire: mettere le gambe, mettersi in marcia.
Nata a Chicago nel 1934, Jean Valentine ha vissuto per lo più a New York; nel 2004 ha ottenuto il National Book Award per una raccolta di “collected poems”, Door in the Mountain. La poesia che dà il titolo al libro è molto breve, secondo lo stile dell’autrice. Si racconta di un cacciatore che corre per la pianura, ha un cervo sulle spalle, le labbra piene di stelle – stelle che come pannocchie gli riempiono la bocca. Cerca una porta nelle montagne.
Con una scrittura nitida – anzi: ossificata – Jean Valentine riferisce di sogni, spettri, ombre. Proprio così: entra in un sogno e raccoglie, da quella landa onirica, pietre, artigli di falco, penne di bestie strane. In una poesia, appare Federico Fellini che spala la sabbia, in Purgatorio; in un’altra poesia, vediamo una mandria di elefanti fantasma, verdi – ne sentiamo l’odore, desideriamo che ci passino attraverso. In un’altra poesia ancora, Jean Valentine insegna che il sognatore, al risveglio, deve ringraziare le persone che gli sono apparse in sogno. “Un giorno un professore, al college, mi ha detto, dovresti scrivere i tuoi sogni – è come se mi avesse regalato una pentola d’oro”, ha detto lei, tempo fa.
Negli anni, ha collezionato premi inutili a dirsi, diverse onorificenze – viveva velata Jean Valentine, al palco preferiva una torba d’ombre. I suoi libri più noti – The River at Wolf, Home Deep Blue, ad esempio – sono pubblicati da piccole case, Alice James Books, Copper Canyon Press. L’ultimo libro di Jean Valentine, Shirt in Heaven, esce nel 2015; la poetessa che ha fatto del sogno la propria poetica muore nel 2020, nello stesso giorno in cui muore Rilke, il 29 dicembre, dopo essere collassata nell’Alzheimer. Il “New York Times”, redigendo il ‘coccodrillo’, ha trovato un titolo che ne azzecca la contraddizione: Minimalist Poet With Maximum Punch. Come a dire: uno tsunami con l’acciarino. Amava Osip Mandel’štam, che ha tradotto e di cui, in alcune raccolte – The Messenger, ad esempio – ha riscritto, in versi, brandelli di biografia.
È bizzarro l’approdo di Jean Valentine alla poesia. Sposata con lo storico James Chace dal 1957, madre di due figli, avrebbe continuato a scrivere nei ritagli di tempo, tra strati di oscurità. Avrebbe deposto la poesia nell’armadio, tra le cose che dopo una certa età non si fanno più. Nel 1964, senza troppe attese, invia un manipolo di poesie, prive di titolo, per la “Yale Series of Younger Poets”, il premio conferito ai giovani poeti statunitensi di genio, vinto, tra gli altri, da James Agee, Adrienne Rich e John Ashbery. Jean batte tutti e quel fascicolo pinzato con garbo diventa il suo primo libro, Dream Barker and Other Poems. Dopodiché la quiete casalinga s’interrompe: la poetessa divorzia dal marito – si risposeranno qualche anno dopo, per ri-divorziare l’anno dopo – e studia alla corte di Robert Lowell. Non cede alle spire della poesia ‘confessionale’ resa di moda da Sylvia Plath e Anne Sexton. Il suo dire ha longevità di petroglifo: legata – per maestria nel levare – alla ricerca di Paul Celan, pare, piuttosto, ricalcare alcuni ipnotici canti degli indiani d’America. Si è scavata una tana nel bitume onirico.
Piaceva a Seamus Heaney, che disse che i suoi versi erano “pura razzia, puro rischio, scabri nel dire ma disperatamente fedeli al proprio compito”. Tra tutti, merita il giudizio di Adrienne Rich:
“Leggere una poesia di Jean Valentine è come fissare un lago: vedi il tuo viso e le forme del mondo superiore, le vita sottomarina, il luccichio delle bottiglie sul fondale, foglie alla deriva. Il noto e il familiare sono tutt’uno con il numinoso, il mistero, il semi-selvaggio; coscienza e subliminale qui si incontrano. Questa è poesia di vertiginosa forza perché dà accesso a spazi e significati che altrimenti ci resterebbero inaccessibili”.
Jean Valentine scrive cancellando: la poesia è il culmine di un’esperienza vasta, ne è la fioritura, la spremitura aurea. Tutto il resto – gli uragani, le nascite, i movimenti tellurici – è esistito per l’accadere di quel singolo fiore – futile, certo, ma bello – di quella fugacità sia felice il lettore.
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Fellini in Purgatorio
Spalava sabbia
sulla riva del mare, i grossi occhiali neri
scintillavano di pioggia:
“Non sembro una donna?”
e spalava, a piena vanga.
La gola al giogo dell’acqua
e l’acqua fioriva in latte.
Spalatore, hai mangiato la terra?
o è la terra a divorarti?
Dimmi
cosa devo fare
per vivere in questo luogo.
E lui, serafico, proprio come se fosse morte:
“Oh – latte – non siamo che latte – lattescenza”.
*
Il fiume detto Lupo
Venendo da est abbiamo visto le bestie
pellicano castoro falco topo muschiato e serpente
e peli e pelle e piumaggio
i loro occhi nel buio: rossi e verdi.
Il tuo dito che mi insegna la bocca.
Beati quelli che ricordano
che ciò che desideravano
un tempo, ora è loro.
Un anno fa, un giorno, era estate
Dio mi ha colmato di sé, come oro,
fin nelle profondità del midollo.
Tanto vicino a Dio, tanto vicino a te:
cammino lungo il fiume detto Lupo
con le bestie. La pelle del serpente
è verde e mi illumina. La nostra seconda vita.
*
Mandel’štam
1934-35. L’arresto e la prigionia, a Mosca; l’esilio con la moglie Nadežda a Voronez.
La casa di mia madre
Russia
ferme le mammelle di bronzo del lupo
ferma la luce intorno alla sua
pelliccia, grigia di gelo
Ho 43 anni
non vivrò a Mosca
Russia
scarpa di ferro
troppo piccola
incavata ai lati
Vecchia Russia
vecchie cantine bocche
piene di sangue e di terra
ci trascina dentro di sé
nessuna stanza in cui sdraiarsi
e la tua piccola mano
persiste a domare
il mio cervello nel fuoco
da bivacco del tuo petto
non vivremo a Voronez
non ha abitazione la mia mano
inutile al tenerti
*
Dimmi, che cos’è l’anima
Una prigione, il pavimento
di cemento, in mezzo
alla stanza una pozza piena
di acqua nera. Scivola in un canale.
Saccheggia la pozza, saccheggia il canale.
Accanto al muro
presso il fuoco
Mandel’štam recita poesie
chiuso nel cappotto di pelle, giallo:
i criminali lo ascoltano
e gli offrono pane, cibo
in scatola – lui lo afferra
*
Il poeta gallese
dice che sua madre
“ha lasciato questo mondo”
la settimana scorsa
“Ma non è mai morta
resta intorno a ogni cosa”.
Poi mi mostra un meraviglioso
uccello indiano, rosso, punteggiato
di giallo: Felicità. Bellezza. Arte.
Gli piaci. Sì, quell’uccello sa
che non abbiamo molto tempo.
Sua madre, ora, ha un corpo d’oro.
*
Nel Bardo
Ho sognato di essere finalmente riuscita
a parlare al telefono con C
sussurrava – non riuscivo
a distinguere le sue parole
era stato in ospedale
poi in una casa di cura
anche M era malato
nei sogni sei in tutti
da sveglio sei in tutti:
ti ascolto e respiro il tuo cinereo respirare
vecchio poeta cinese:
è il fuoco
per vedere la via
*
Porta nella montagna
Mai ho corso così forte nella valle
mai ho divorato così tante stelle
Trasportavo un cervo morto
legato al collo e alle spalle
Penzolano pesanti le zampe
del cervo, sul mio petto
La gente non vuole
farmi entrare
Porta nella montagna
fammi accedere
*
Luna falena
Luna falena
alla nera finestra
sei nella mia memoria-faro
ma non so parlarti
silente alla nera finestra
silente come il tuo corpo
il piccolo libro
su cui ho scritto
della mia fame
*
Dio delle stanze (per Paul Celan)
Dio delle stanze, di questa stanza di carte
razziate, retta dal rimosso, questa singola
stanza fatta di oggetti presunti
e vuota, ora, dio delle stanze vuote, dio
di uno inabile al dire, dio dei naufragi
delle barche rovesciate dal vento (dio
della chiatta e dell’orecchio e del labbro)
ascolta uno, uno soltanto, sii soltanto te
quello di cui qualcuno ha bisogno
*
Spettri elefanti
Nel cimitero degli elefanti
enormi verdi spettri elefanti
con la groppa di rami estivi
di notte li sento respirare alla finestra
non credere che non pianga
se sei lontano da me
non credere che sia libera
al principio l’addio ha un tono docile –
forse dura un paio di mesi gemelli –
ma chiamala decapitazione
spettro elefante
chinati verso di me
attraversami –
*
Se una persona visita qualcuno in sogno, in certe culture il sognatore ringrazia
In memoria di Reginald Shepher
Caro Reginald
è mattina.
Siedo al tavolo
scrivo una lettera
con ago e filo.
+
Mi sono punta il dito Un pellicano
devia dal patto migratorio
e dalla propria famiglia linguistica –
il bimbo si è perduto
e sembra distratto mentre si squarcia il petto.
+
Scrivo sul copriletto
che preparo per te
perché tu possa respirare con facilità e facondia.
Se una persona visita qualcuno in sogno,
in certe culture il sognatore la ringrazia, al mattino,
perché ha abitato il suo sogno.
+
Dico sogno
ma non mi attrae ciò che si ritira
ma è lui che dorme madreperlaceo e mai si ritrae.
+
In albergo su un’altra stella. Stanze fredde
e umide, siamo nella reception a mezzanotte
a chiedere una stufa elettrica. Ce la danno. Sei
malato, usala. Grazie per aver visitato il mio sogno.
+
Riesci a respirare?
Spacca il vetro grida
spacca il vetro forza la stanza
spezza il vincolo lacera
il suono dietro il velo di vetro.
+
Ricordi la vite blu?
cresciuta lungo le grate
quattordicesimo secolo
Venere vicina come la luna
la ciotola del cranio gira e gira
la sollevo
*
Foglia, mano d’ombra
Una foglia, mano d’ombra
cala sulla mia testa
da oltre il tempo
ora & allora
in questo periodo dell’anno, settembre,
così accade –
è ben noto –
che un’anima sigillata
a tutti sconosciuta
cammini, nell’interiore:
facevo così anch’io
e tu, con la tua mano d’ombra
mi sei calato sulla testa, di nuovo,
dicendo: “Non credere di essere un mostro”.
Jean Valentine