Ecco perché Ira Levin è il narratore decisivo del Sessantotto
Tutti cantavano di pace e amore e si vestivano come una versione pezzente di Bob Dylan. Eravamo alle soglie del ’68. Nel frattempo, qualcuno in America scriveva la verità sulla nostra epoca. La cosa strana è che, a fronte di un successo planetario, nessuno si rese conto del vero significato di quel libro. Sto parlando di Rosemary’s Baby di Ira Levin. Scambiato per un semplice horror, in verità, il testo in questione è una terrificante distopia, come del resto quasi tutta l’opera dell’autore (vedi per esempio The Stepford Wives. La fabbrica delle mogli, titolo poi divenuto espressione idiomatica per indicare la tipica desperate housewife americana, o I ragazzi venuti dal Brasile).
Il romanzo potrebbe indurre una certa confusione nel lettore non smaliziato. Ma, in verità, qualsiasi racconto horror che voglia definirsi tale non si limita a dare i brividi, ma rende in forma metaforica le paure e i problemi di un determinato periodo storico. Basti guardare al miglior Stephen King che, sorvolando per una volta sull’intramontabile IT, in Ossessione anticipa di svariati decenni episodi traumatici della storia americana, come la strage avvenuta alla Columbine High School. Nella fattispecie di Rosemary’s Baby, cosa vuole rendere il suo autore? La vicenda la conoscono un po’ tutti, se non altro per aver visto la fantastica trasposizione di Roman Polanski – e non sembra un caso, infatti, che il regista abbia scelto questa particolare storia. Rosemary e Guy Woodhouse, una coppia per certi versi estremamente banale, prendono casa a New York, in un palazzo a prima vista signorile. I vicini di casa, due anziani signori all’apparenza innocui, ma dai modi certo un poco stravaganti, sono in realtà membri di una grande congregazione segreta, dedita al culto del demonio. Il marito di Rosemary, in cambio del successo come attore, permette alla setta di far mettere incinta la moglie da Lucifero in persona.
Se si analizza, evitando di lasciarsi trascinare dall’avvincente trama, si noteranno facilmente alcuni aspetti ben più inquietanti di qualsiasi possessione diabolica e via dicendo. La prima cosa, che non sfuggirà certo ai cultori del genere, è la differenza fondamentale di ambientazione. Tutti i grandi romanzi del terrore, proprio come le utopie, prendono corso in un luogo altro: la Transilvania, un castello, una città che non esiste, oppure ai confini del mondo come in alcuni episodi della produzione lovecraftiana. Al contrario, qui il male è annidato nel cuore pulsante del mondo occidentale moderno, New York. Altro aspetto da non sottovalutare è che la malvagità non si manifesta come mera dimensione metafisica che fa il suo ingresso nel quotidiano sovvertendolo e generando situazioni che spiccano per la loro extraordinarietà. In Rosemary’s Baby il male si è per così dire insediato stabilmente, ha indossato vesti comuni, ed è indistinguibile dal suo contrario tanto è ben mimetizzato. I membri della setta sono infatti per la maggior parte individui della buona società newyorkese. Il ginecologo – probabilmente il più famoso in città – che ha in cura la protagonista, quando è incinta, è anch’egli parte della congregazione. Come non trovare delle assonanze con il noto romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler e ancora di più con l’attualizzazione cinematografica fatta da Kubrick in Eyes Wide Shut. In questi testi, come nei film, si parla chiaramente di un’organizzazione sotterranea che, oltre a condurre dei riti agghiaccianti, controlla i centri nevralgici del sistema e del potere.
Intanto che nel mondo si riprendeva a parlare di Beat Generation, e gli improbabili ideali di pace e amore venivano ripetuti alla stregua di un mantra – più per convincersene che per sincera persuasione –, un americano sbatteva in faccia al pubblico una verità indicibile e lo faceva in tempi non sospetti, quando ancora non erano in auge le teorie del complotto. Anticipando tutte le speculazioni sul Gruppo Bilderberg e altri meno noti, Ira Levin ha rappresentato, usando la metafora dell’incubo, una storia di incredibile realismo.
Matteo Fais
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In faccia a borghesi e a fancazzisti in rivolta, l’esempio di Ryokan, il monaco folle
Quando scoppia il Sessantotto, in realtà, letterariamente parlando, è tutto finito. Il Sessantotto della letteratura – inteso come la rottura del dogma narrativo – è stato fatto qualche decennio prima. Per questo, i ‘sessantottini’ si scoprono pieni di ideologia ma privi di romanzo, con i filosofi tromboni sulle barricate e gli scrittori esauriti, già penne messe in batteria a titillare il trionfo del mercato sovrano. A guardare con senno romanzesco il Sessantotto, di cui quest’anno si festeggiano i primi 50 anni di gloria, si resta sbalorditi. James Joyce cambia la storia della narrazione nel 1922, con Ulisse; Louis-Ferdinand Céline complica il cambiamento con Viaggio al termine della notte (1932); Hermann Broch mette una pietra sopra sulla possibilità del romanzo così com’è con La morte di Virgilio (1945). Nel frattempo, prima del Sessantotto, gli scrittori e i poeti sono passati dalla devastazione della ‘forma’ al ritorno alla vertigine formale – T. S. Eliot passa da La terra desolata ai Quattro quartetti, nel lampo di vent’anni. I ‘casi’ letterari che preludono il Sessantotto sono 1984 di George Orwell e Il Signore delle Mosche di William Golding. Due romanzi diversi, scritti senza sbandate retoriche, che ci dicono una cosa chiara e semplice. Lo Stato è il male assoluto (Orwell). L’uomo è un propagatore di male (Golding). Il Sessantotto, intendo, non ha prodotto alcuna novità formale, lirica, romanzesca. Il Sessantotto è figlio dell’era dei consumi, figlia consumatori, non crea ‘leggenda’. L’obbiettivo sotterraneo del Sessantotto – con tutta la retorica ‘contro’ – è creare una nuova categoria di consumatori. Così è stato e così è. Non stupisce, perciò, che nell’anno della contestazione il Premio Strega vada ad Alberto Bevilacqua – per L’occhio del gatto – e il Campiello se lo aggiudichi Ignazio Silone con L’avventura di un povero cristiano, la storia romanzata di Celestino V. No. Non sono le ‘forze della reazione’ che osteggiano i ‘rivoltosi’. Il problema è che non ci sono forme da sformare, né nuove estetiche da sfornare: il ’68, semmai, esiste come sottofondo musicale (la musica, cioè ciò che si vende, si svende, ‘fa massa’). La cosa più sorprendente, però, accade sul pulpito del Premio Nobel per la letteratura. Nel 1968 il premio più ambito dagli scrittori di tutto il pianeta casca tra le mani di Yasunari Kawabata. Un’ottima scelta. Kawabata ha scritto libri fondamentali, di leggiadra bellezza (Il paese delle nevi, Il maestro di go, La casa delle belle addormentate sono capolavori assoluti, scritti sull’ambra). Solo che. Ecco. Kawabata non è esattamente l’icona della stupidotta ‘fuga d’Oriente’ dei Sessantottini con il denaro di papi nei jeans. Kawabata, che ha innovato fortemente la letteratura nipponica – è una specie di Monet della scrittura, procede per suggestioni, per ‘colori’ e luce a colpi di katana – e planetaria – tra gli imitatori, annoveriamo Italo Calvino – è un artefice della ‘tradizione’. Per quanto ogni tradizione vada costantemente affilata da dentro. In Svezia, con il suo kimono favolistico e il viso di un uomo sbozzato nella disciplina, Kawabata fa un discorso verticale, s’intitola Il Giappone, la bellezza e io. Cita i poeti. Dogen. Poeta e maestro zen del Medioevo nipponico. Si sofferma su Ryokan, geniale monaco-poeta vissuto nel XVIII secolo, “abitando le tane selvatiche, vestendo stracci, errando per le campagne. Giocava coi bambini, discorreva coi contadini, né cercava la profondità della fede e delle lettere in dotte disquisizioni; semplicemente seguiva l’immacolato precetto wagugen aigo (sorriso in volto, parola d’amore)”. In faccia ai borghesi ammantati di cultura ai rivoltosi che propongono la filosofia dello svacco, Kawabata impone l’esempio di Ryokan. Sorridere alla corruzione del mondo; amare l’uomo nella sua tentacolare debolezza; adempiere la propria vita nella composizione di una forma pura. La poesia, tra le forme, è la più arcana e la più fragile. Può evocare i morti e consolare i passanti. Appena pronunciata, svanisce. A meno che la luce non abbia memoria. (d.b.)