Un rapace risultato la fiction l’ha ottenuto. Tiepido. Ma tangibile. Il nome della Rosa è tornato in classifica: posizione 18 nella ‘Narrativa italiana’, posizione 34 in assoluto. Mai come Elena Ferrante (4 libri tra i primi dieci nella classifica degli italiani). Non che ne avesse bisogno: Il nome della Rosa, che l’anno prossimo compie quarant’anni di vita, fa parte del ristretto club di libri sempreverdi: ha venduto oltre 50 milioni di copie, come rari libri buoni – Lolita, Il giovane Holden – e parecchi osceni – Il Codice Da Vinci, L’Alchimista.
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Prima di fare ingresso in una abbazia del Trecento – piena, più che di monaci, di polli editoriali dalle uova d’oro – tuttavia, Umberto Eco s’era infiltrato nelle scuole elementari, finendo, ovviamente, per smarrirsi in una libreria babelica, infinita.
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Il libro introvabile di Umberto Eco, certamente più attuale del Nome della Rosa, s’intitola I pampini bugiardi – sottotitolo: “Indagine sui libri al di sopra di ogni sospetto: i testi delle scuole elementari” – lo ha pubblicato l’editore Guaraldi nel 1972, ed è l’atto con cui l’illustre semiologo – aveva da poco pubblicato L’industria della cultura con Bompiani e ispirato la nascita del Dams – sculaccia, anzi, disintegra il sistema educativo italico.
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In realtà, Eco firma l’introduzione di uno studio compiuto da Marisa Bonazzi, che squaderna le antologie in uso all’epoca nelle scuole elementari, dimostrando come i baby venissero allevati in batterie ottocentesche, secondo uno stile moralista grottesco. Eco non si risparmia in salutari scudisciate. “Il ragazzo viene educato a una realtà inesistente… quando i problemi, e la risposta che ne viene fornita, concernono la vita reale, essi sono posti e risolti in modo da educare un piccolo schiavo, preparato ad accettare il sopruso, la sofferenza, l’ingiustizia, e a dichiararsene soddisfatto. I libri di testo dicono insomma delle bugie, educano il ragazzo a una falsa realtà, gli riempiono la testa di luoghi comuni, di platitudes, di atteggiamenti codini e acritici. Quel che è peggio, compiono quest’opera di mistificazione attenendosi ai più vieti cliché della pedagogia repressiva ottocentesca, per pigrizia o incapacità dei compilatori”.
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Riformare l’educazione? Macché: rifondarla. Ma neanche. Distruggerla. Le parole di Eco riecheggiano quelle di Giorgio Colli, l’accademico eretico (“L’educazione dev’essere sottratta all’Università. La scuola non può essere riformata, ma solo combattuta”) e quelle di Maurice Blanchot che nei filosofi servi delle Università, cioè del sistema statale, asserviti al linguaggio del ‘comunicare’ e del ‘far capire’ e del ‘produrre’ – al posto di indirizzare verso l’ignoto, l’inesauribile e l’inafferrato – vedeva dei vili, dei traditori della sapienza.
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Con brutale lucidità Eco, Guglielmo da Baskerville scatenato tra i pedanti architetti del sistema scolastico – da prendere a pedate – capisce che la scuola è il pollaio dei consumatori, il ventre che partorisce schiavi: “si può riconoscere in tali testi lo strumento più adeguato di una società autoritaria e repressiva, tesa a formare sudditi, uomini dal colletto bianco, folla solitaria, integrati di ogni categoria, esseri a una dimensione, mutanti regressivi pre-gutenberghiani… Questi libri sono manuali per piccoli consumatori acritici, per membri della maggioranza silenziosa, per qualunquisti in miniatura, deamicisiani in ritardo che fanno elemosina a un povero singolo e affamano masse di lavoratori col sorriso sulle labbra e l’obolo alla mano”.
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Non è ancora così? La scuola dovrebbe essere liberatoria, un cantiere della creatività non il cratere delle convenzioni, la burocrazia del noto, per diventare notabili nel tedio. A scuola s’impara il sé, grazie al quale (e in virtù del quale) si riesce ad apprendere un mestiere – e il mestiere è l’esercizio concreto del talento, la vita, insomma, la soddisfazione di trarre una forma dal nulla, qualunque essa sia – che sia una sedia o un libro o una protesi – mica la cosa che bisogna fare per guadagnare soldi da spendere.
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La risposta di Eco al disastro scolastico è affascinante. Al deserto culturale, alla scuola a senso unico – mentre dovrebbero proliferarne a migliaia, di scuole, ciascuna con un progetto educativo diverso, vero – si risponde con la biblioteca infinita, con l’avventura della lettura, con la meraviglia e l’assalto. “Il problema non è di fare dei libri di testo «migliori»: il problema è di fornire a bambini e insegnanti biblioteche scolastiche talmente ricche e una tale disponibilità alla realtà (quella dei giornali, della vita di tutti i giorni) che l’acquisizione di nozioni veramente utili avvenga attraverso una libera esplorazione del mondo, la lettura dei giornali, dei libri di avventure, degli stessi fumetti (e perché no, letti, criticati insieme, e non letti di nascosto e per disperazione, visto che i libri ufficiali di lettura sono quello che sono), dei manifesti pubblicitari, dei rendiconti di vita quotidiana forniti dagli stessi allievi…”.
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Senza organizzare ‘chiavi di lettura’ del mondo, lasciamo che siano i ragazzi a spalancarci il loro mondo. I libri, in questo caso, sono caleidoscopi, binocoli, pontili da cui decolla il deltaplano. Nella realtà ci si avventa, non si tentenna, e il libro si morde non è vieto esercizio d’educazione o di erudizione – certi hanno ancora paura: se gli studenti pensano, al posto di obbedire ai diktat di mercato, è un problema. (d.b.)