
“Soviet Man”. Hélène Iswolsky, l’anticomunista che oppose Cristo a Stalin
Cultura generale
Fabrizia Sabbatini
Come si sa, Anton Čechov, maestro assoluto nell’arte del racconto breve – insomma, non ci si può mettere a scrivere qualcosa senza avere letto, almeno, La steppa, Il monaco nero, La corsia n. 6, La signora con il cagnolino – di mestiere faceva il medico, aveva una famiglia piuttosto vasta – con cinque fratelli – afflitta da diversi problemi economici e scriveva, in sostanza, per imbarcare il suo talento e per sbarcare il lunario (“Oltre alla medicina”, scriveva, “ho un’amante, la letteratura, ma non ne parlo perché chi vive nell’illegalità morirà nell’illegalità”). Sappiamo anche questo, in effetti, cioè che l’amante ‘illegale’ diventò la moglie ufficiale di Čechov, riconosciuto come il genio della letteratura russa, tra i grandi scrittori di ogni tempo. Ciò che non si sa è che lo scrittore, affacciatosi alla fama, ha rivisto, per il proprio editore, i racconti della giovinezza, spesso combinandoli in modo diverso, spesso scombinandone il senso. In sostanza, scrive Giuseppe Ghini, professore di Letteratura russa all’Università di Urbino, “Čechov operò una revisione spesso drastica dei suoi racconti giovanili: tagliò o aggiunse scene, cambiò nomi e finali, modificò completamente lo stile e il tono, scrivendo una seconda versione che sovente ha in comune con la prima solo il soggetto del racconto”. Conquistando un grande scrittore, di audacia esistenzialista (ancora Ghini: “Nel 1899 Čechov inserisce dunque in molti racconti quei caratteri che hanno reso le sue opere così originali e così anticipatrici della crisi esistenziale della modernità: la perdita di speranza, la solitudine dei personaggi, il rimando a un’altra vita la cui realizzazione è sempre posticipata”) abbiamo perduto per sempre i contorni della giovinezza letteraria di Čechov, la frugalità dei racconti originari, giovanili, autentici. Fino ad oggi. Ghini, infatti, in Il primo amore e altri racconti inediti (Ares, 2018) harecuperato la versione originale di alcuni racconti del russo, scoprendo, così – così il titolo della sua introduzione – Il giovane Čechov, finalmente! “Il giovane scrittore che si fece strada tra i grandi della letteratura russa, quello che il critico Grigorovič nel 1886 implorò di lasciare la medicina per la letteratura, era questo, era l’Antoša Čechonte dei venticinque racconti qui presentati in prima versione italiana”. “Mai si deve mentire… l’arte ha questo di particolarmente grande: non tollera la menzogna”, scrive, Anton, in una delle sue mirabili riflessioni sull’arte. Questo libro, dunque, è un risarcimento, un esercizio di verità. L’evento editoriale è così importante, che mi è parso ovvio contattare Ghini. (d.b.)
Preliminari: come hai scoperto la discrepanza tra il Čechov dell’opera libraria (che conosciamo) e quello ‘da giornale’, a tuo avviso più schietto e forse più ‘autentico’?
Qualche anno fa ho tenuto ai miei studenti di Urbino un corso sui racconti di Čechov e quando sono andato a controllare le edizioni italiane mi sono accorto dell’incongruenza: facevano passare per racconti giovanili le versioni del Čechov maturo, c’era scritto “Racconti 1882-84” e invece il lettore italiano leggeva i racconti rivisti dall’autore russo nel 1899, quando vendette all’editore Marks i diritti su tutte le sue opere.
Che differenze ci sono tra il Čechov degli esordi e quello della maturità: i racconti rivisti dall’autore dovrebbero essere letterariamente più ‘rotondi’, più perfetti, non è così?
Questo è anche il presupposto dei filologi russo-sovietici che pubblicarono la Raccolta completa delle opere di Čechov tra il 1972 e il 1984. La loro idea è che tutto ciò che precede l’ultima versione di un racconto sia una “redazione preparatoria”. Arrivano al punto di pubblicare come “redazione definitiva” alcune versioni dei racconti che non videro mai la luce, Čechov vivente, e che lo stesso autore scartò dalla Raccolta completa. Domanda: in questo caso la redazione che dobbiamo pubblicare come ultima volontà dell’autore – visto che questo è il principio che guida il filologo – è quella giovanile pubblicata sulle riviste russe degli anni Ottanta o quella scartata da Čechov nel 1899? C’è poi da dire un’altra cosa. In realtà, le opere di uno scrittore non diventano necessariamente “più rotonde e perfette” con il passare degli anni, semplicemente cambiano. Cambiano come cambia un giovane di 23-24 anni rispetto a un uomo di 40. Se dovessimo seguire questo ragionamento, dovremmo scartare la Gerusalemme liberata di Tasso per leggere solo la Gerusalemme conquistata, dato che l’ultima volontà dell’autore è chiaramente la seconda e la prima venne addirittura pubblicata a sua insaputa. In realtà, non è così: tutti noi leggiamo e studiamo la Gerusalemme liberata. Quello di Tasso, com’è noto, è un caso limite. Però spesso le versioni giovanili meritano rispetto, tanto quanto quelle dello scrittore maturo. Soprattutto quando sono state pubblicate e non sono meramente preparatorie.
Mi colpisce quando in sede introduttiva sottolinei come Čechov, in modo quasi sistematico, corregga i racconti degli esordi dando loro un senso di malinconia, di solitudine, “di spossatezza” greve, grave di incomprensioni e di silenzi. Come mai? C’è, per così dire, una maturità ‘esistenziale’ nel grande scrittore?
Sì, il Čechov dei racconti della maturità è il Čechov del teatro, delle Tre sorelle, del Giardino dei ciliegi e dello Zio Vanja. La sua è un’attesa di qualcosa di liberatorio che deve venire, che verrà assolutamente, qualcosa che chiama “vita”. Come queste tre pièce anche i racconti della maturità presentano questa attesa esistenziale, attesa di qualcosa che, tuttavia, non arriva mai. C’è un racconto molto significativo, Uno scherzetto, scritto nel 1886 e poi corretto nel 1899. Ora, nella prima versione lo “scherzetto amoroso” si conclude con un “E qui permettete che io mi sposi”. La versione del Čechov maturo finisce con la protagonista che ha sposato un altro e ha già tre bambini: «Quel tempo […] lei non l’ha dimenticato; esso è per lei il più felice, il più commovente e bel ricordo della sua vita… Ed io, ora che sono vecchio, non capisco più perché ho detto quelle parole, perché ho scherzato…». Ecco questa è la differenza: il Čechov giovanile “risolve” i suoi racconti, il Čechov maturo lascia i suoi protagonisti e il suo lettore nella “čechoviana” attesa di una nuova vita.
Čechov è riconosciuto come il maestro assoluto del racconto breve: quale era la sua ‘ricetta’ per scrivere?
La ricetta non la dobbiamo inventare, l’ha data lo stesso Čechov in una lettera a uno dei suoi fratelli che voleva cominciare a scrivere racconti. Da notare che la lettera è del 1886, l’epoca dei racconti che ho tradotto: è la ricetta del giovane Čechov. «1) rifuggire dalle lunghe tirate di natura politica, economica, sociale; 2) attenersi a un’obiettività integrale; 3) ricercare la veridicità nella descrizione dei personaggi e degli oggetti; 4) ricercare una speciale concisione; 5) avere coraggio e originalità rifuggendo dagli stereotipi; 6) immettere calore nella narrazione».
Al di là del tuo lavoro, pregevolissimo, che ci permette di capire in profondità il lavoro di Čechov, quali sono le versioni dei racconti più risolte, a tuo avviso: le prime, le ultime? E quale il racconto esemplare, da cui partire per capire Čechov?
Il mio lavoro vuole restituire al lettore italiano e alla storia della letteratura un protagonista dimenticato, il giovane Čechov. Fino ad ora esisteva soltanto il Čechov maturo, quello malinconico che passeggiava con bastone e pince-nez a Jalta, cercando di sconfiggere la tubercolosi. Il giovane Čechov straordinariamente vitale che a Mosca organizzava madre, padre, e cinque fratelli, scriveva racconti frequentando l’università e poi affacciandosi alla professione medica, be’ questo Čechov era completamente sconosciuto. La sua vitalità curiosa della società del tempo, allegramente critica e aneddotica è in tutti questi racconti. Da questo punto di vista, uno dei più significativi è Il corredo: nella prima versione, quella che ho tradotto, è la Storia di una mania (questo è il sottotitolo della prima redazione) in una Russia che ricorda quella di Gogol’; nell’ultima versione, quella finora nota, è un racconto di atmosfera čechoviana che lascia il lettore con «un peso sull’anima» (come scrive l’autore).
…e ora? Che cosa stai studiando, in cosa ti stai gettando?
Sto lavorando a un progetto un po’ folle che ho cominciato tempo fa: una nuova traduzione dell’Evgenij Onegin di Puškin, in cui mantengo dell’originale, oltre il senso, tutte le caratteristiche formali eccetto la rima. Mantengo soprattutto il ritmo giambico che funge da collante ai 5500 versi dell’Onegin. Credo che il lettore italiano abbia il diritto di “sentire” come suona questo straordinario romanzo in versi, mentre mi pare che la rima – che traduttori come Ettore Lo Gatto e Giovanni Giudici hanno a loro modo rispettato – sia del tutto inattuale per l’orecchio italiano di oggi, che suoni infantile o ironica. La sfida è mantenere il ritmo giambico come l’hanno interpretato i russi – alternanza di sillabe accentate e non accentate – e non trasformare l’Onegin in una cavalcata. Penso che sia una sfida da cogliere.