Ha atteso più di venti anni prima di consegnare il manoscritto alle stampe, e neppure lui, Werner Herzog, sa bene il perché. Di quel tempo trascorso nella giungla peruviana, dal giugno 1979 al novembre 1981, questa specie di “diario” riporta pochi episodi riguardanti le riprese del film (Fitzcarraldo, uscito nel 1982). Tanto meno ne rappresenta la sceneggiatura. La conquista dell’inutile (trad. di Monica Pesetti e Anna Ruchat, Mondatori, Milano 2007) può essere letto piuttosto come una compiuta opera letteraria. Non è un caso che gli episodi legati alle riprese, compresi i frequenti, violenti contrasti con Klaus Kinski (che tuttavia, deve ammettere il regista, “mostra momenti di slancio trascinante”) o con altri due attori, Mario Adorf e Jason Robards (“due vigliacchi”, sostiene Herzog, “che però qui impazziscono più che altro per via del loro spaventoso vuoto interiore”) risultino alla fine marginali in questa lunga serie di “annotazioni”, come le chiama lo stesso regista. Sì, perché non si tratta neppure di un “diario”, piuttosto, secondo le parole dello stesso Herzog, di un “paesaggio interiore partorito dal delirio della giungla”. E forse sta proprio qui il motivo che ha trattenuto il regista dal pubblicare prima questo scritto: la necessità che fosse accolto e letto come indipendente dall’opera filmica, da Fitzcarraldo.
Si capisce meglio, così, anche il titolo, laddove la “conquista dell’inutile” non deve richiamare tanto la “grande metafora” della nave trascinata dagli indios locali lungo le pendici di una montagna, quanto l’appropriazione, attraverso la scrittura, di un intero mondo di visioni che ha accompagnato il tempo delle riprese. Non è casuale leggere allora, quando l’“evento” è ormai compiuto, come la nave risulti ad Herzog ormai “indifferente”, tanto da non avere “più valore di una qualunque bottiglia di birra rotta nel fango”. L’obiettivo era altro, scrive Herzog il 4 novembre 1981, come ultima annotazione, “era soltanto il fatto di capire una grande inutilità, o, più precisamente io ero solo penetrato più profondamente nel suo misterioso regno”.
Quanto fosse necessario accompagnare i lavori di ripresa con l’esercizio della scrittura lo scopriamo in un altro appunto del 18 ottobre dello stesso anno: “Solo scrivendo riesco a raggiungere me stesso”. Accettando la totale immersione nell’abisso senza tempo dell’infinita e misteriosa natura rappresentata dalla foresta vergine, Herzog finisce col ridestare in sé la coscienza di uomo occidentale, e per fissare la conquista ha necessità della scrittura, più che del film che sta girando. La memoria d’Occidente non può non emergere come memoria cristiana, che non a caso va di pari passo con quella della propria paternità. È il 7 dicembre del 1980 quando annota: “Ho fissato gli alberi pallidi della foresta vergine e ho cercato di immaginarmi che a Monaco c’era la neve, che il mio piccolo stava festeggiando l’Avvento, che io non ero con lui”. Così come altrove il tempo indistinto cui vorrebbero costringerlo la “maestosa indifferenza” e la “gigantesca meschinità” della grande foresta trova finalmente la scansione che lo aiuta a sentirsi parte di una storia che non è quella vaga, “universale”, ma cristiana. Ecco dunque l’emergere dirompente di altre festività (la Pentecoste, il Venerdì Santo, la festa della Madonna di Fatima), sola memoria capace di permettere la conservazione di un’identità. Un’identità che ha sorretto per oltre due anni lo sguardo di Herzog perso tra infiniti incubi notturni, attratto da oggetti, animali e piante di ogni risma: “Proveniente dagli abissi della natura, un piccolo sauro primordiale si è fermato di fronte al mio volto e mi ha guardato in modo insistente”. Un’identità che, sostenuta anche dall’ascolto della Passione secondo Matteo di Bach, dell’Halleluja di Händel o dalla lettura di Joseph Roth e delle lettere di Abelardo ed Eloisa, viene risvegliata dall’incontro con la natura colta e dipinta nella sua primordialità: “Un cane è venuto verso di me camminando su tre zampe e mi ha guardato come un apostolo guarda il SIGNORE che non gli ha ancora dato un incarico”.
La vita dell’Herzog abitante della giungla, pur sua stessa ammissione, “privo di emozioni […] come il letto vuoto di un torrente durante una secca”, è tutt’altro che remissiva, tanto che è capace di immaginare trasfigurata l’intera natura. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno del 1981 il corso d’acqua “sembrava assorto in una preghiera notturna: la foresta vergine dalle due parti del fiume, che celebrava la sua messa notturna, gli faceva da chierichetto. […] Tutto fuori sembrava in preghiera, incompiuto, irredento”. E non si dica che questa attesa di redenzione che è in e di natura, affermata con vigore, con un film o attraverso la scrittura, sia oggi cosa da poco.
Vito Punzi