20 Giugno 2020

“Leggete di tutto. Vedete tutto. Un poeta non distoglie mai lo sguardo”. Werner Herzog, il regista che è diventato leggenda. “Sa, in un film ho ipnotizzato tutti i miei attori…”

Il mondo digitale è favoloso, mi dice Werner Herzog, dalla sua casa a Los Angeles. È ricco di pericoli. Pieno di possibilità. Grazie al digitale Herzog può trasmettere i suoi film in Africa e in Asia, anche se i cinema sono chiusi. Grazie a Internet riceve una lettera da Missoula, Montana, è uno studente, e risponde in un attimo. Così, via Skype, possiamo parlarci pur a 5mila miglia di distanza. “Non è meraviglioso!”, urla, “è meraviglioso”. Quindi, la connessione salta, devo richiamarlo.

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Herzog ha 77 anni, il Covid-19 lo obbliga a casa. Un leone in inverno. Napoleone all’Elba. Immagino che sbatta contro le pareti, che fissi il proprio abisso. “Questo dittatore mi piglia in giro”, dice lui. “Ma non ho fatto altro che combattere”. Herzog dice di contenere moltitudini. Sospetta che sia lo stesso per la maggior parte degli uomini.

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In ogni caso, è stato fortunato. È riuscito a terminare il suo ultimo lavoro, “un documentario sui meteoriti”, prima del lockdown. Poi c’è l’eccellente Family Romance LLC. Racconta la storia di una agenzia giapponese che “crea illusioni per rendere migliore la vita dei propri clienti”. In particolare, ciò comporta l’invio di artisti che interpretino un padre scomparso da tempo, di paparazzi che simulino di inseguire un attore fallito, un dipendente che finge di prendere ordini da un datore di lavoro infelice. Negli ultimi anni Herzog ha fatto l’attore in ruoli secondari. Era il criminale al fianco di Tom Cruise in Jack Reacher; l’anno scorso è apparso nello spin-off di “Star Wars”, The Mandalorian, nonostante non abbia mai visto un film del ciclo, “E cosa importa? Non esagerare l’importanza di queste sciocchezze”. Con i soldi ottenuti da The Mandalorian ha finanziato le riprese di Family Romance LLC.

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Molto tempo fa, Werner Herzog era soltanto un creatore di meraviglie malariche, Aguirre, furore di Dio, Woyzech, Fitzcarraldo. Oggi è un marchio, un professore pazzo dalle improvvise, deliberate, esplosioni di rabbia, biblica. Occasionalmente, interpreta se stesso nei film di qualcun altro. “No. Di solito faccio i cattivi. Devo diffondere la paura tra il pubblico. Ho avuto anche un ruolo nei ‘Simpsons’, figurati. E poi, vivo la vita di almeno venti o trenta diversi Herzog, in Internet. Molti sono impostori, alcuni mi imitano. Se mi trovi su Facebook, Instagram o Twitter, quello non sono io”.

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I primi anni di Herzog sono come una specie di Bildugsroman, uno di quelli immortalati nei suoi film. Nato nella Germania nazista, nel 1942, cresciuto in cristallino isolamento, in un villaggio montano, in Baviera. Ha visto il primo film a 11 anni, ha fatto la prima telefonata a 17, ha fondato la prima compagnia di produzione cinematografica a 19, rubando una videocamera alla scuola di cinema di Monaco. La sua carriera rappresenta il trionfo dell’individuo che si autorealizza. D’altronde, c’è anche il desiderio, da parte di Herzog, di edificare la leggenda di se stesso. “Ho fatto un film, Anche i nani hanno cominciato da piccoli, con un intero cast di nani”, dice, a un certo punto, dal nulla, “in Cuore di vetro, invece, ho ipnotizzato i miei attori”.

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Herzog è sempre stato attratto dagli angoli selvaggi, dalle regioni oscure. Dalla grotta Chauvet in Francia all’Alaska occidentale infestato dagli orsi, ambienti adatti ai suoi febbrili antieroi. Ogni produzione, una ricerca. Ogni film, una miniera – qualcosa da inseguire con archi e frecce, spinto fuori dalla foresta, che mangia sul palmo della tua mano. Le opere più raffinate di Herzog (il documentario Cave of Forgotten Dreams oppure L’enigma di Kaspar Hauser) toccano il sublime. Anche i suoi errori, i suoi esperimenti non sono mai privi di interesse.

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Il cognome originario di Herzog è Stipetić (eredità croata della madre austriaca), ha scelto di prendere il cognome del padre, molti anni dopo la sua morte. Ha ancora alcuni fratelli Stipetić, che lo guardano perplessi. “Insomma, come dire… mio fratello più piccolo è critico verso i miei film. Li trova orribili. Quello più grande pensa che i miei lavori siano pessimi, noiosi. Mi dice, ‘Ne hai fatto un altro? Il mio cu*o non ne può più!’. Ma va bene così, sono trasparente, non mi nascondo dietro i miei film. Sono a mio agio con ciò che sono”.

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“Non ho mai avuto la mia età. Sono cresciuto più tardi dei miei coetanei. Ma a 19 anni ho fatto il primo film, quando di solito lo fai a 35. Gli anni dell’apprendistato li ho saltati. Questo è particolare perché significa che non ho mai vissuto la mia età. Per questo non ho contatti con i miei colleghi…”.

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“Ho sempre reciso i miei contatti con i fan. Non è salutare. Devi essere vigile”.

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Herzog legge con voracità, dice che è quello che devono fare tutti i registi. Un amico, il documentarista Errol Morris, gli ha consigliato un libro, “orrendo, di un domatore di leoni fallito. Un leone gli ha mozzato il braccio, ha scritto con quello che gli è rimasto. Il libro è letterariamente inutile, ma ti dà favolose intuizioni sulla natura umana. Lo stesso vale per la tivù. WresyleMania. The Kardashians. Ne sono affascinato. Quindi non dico, leggete Tolstoj e basta. Leggete di tutto. Vedete tutto. Un poeta non distoglie mai lo sguardo”.

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“Mia moglie è cresciuta in Siberia, la sua lingua madre è il russo. La mia lingua madre è il bavarese. Venticinque anni fa abbiamo deciso che non ci saremmo parlati in russo o in tedesco, ma in inglese. Ciò significa che siamo cauti, attenti nell’articolare i nostri sentimenti in una lingua straniera. Il risultato? In venticinque anni non ci siamo mai detti una parolaccia”.

Xan Brooks

*L’articolo, tradotto parzialmente, è stato pubblicato su “Guardian”

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