07 Aprile 2021

Elogio di “Harvey”, il coniglio invisibile, e del Signor Dowd: insegnano che la follia è santa

Adorava i cappelli, aveva una bellezza solida, sottolineata dal mento, aguzzo, e deve la sua eternità a un coniglio. Mary Coyle Chase è morta quarant’anni fa, nell’ottobre del 1981, a 75 anni: “l’estrosa drammaturga, divenuta famosa e ricca per aver creato un coniglio invisibile di nome Harvey, che ha invaso le menti del pubblico del cinema e del teatro, è morta a Denver, dove è nata”. Il ‘coccodrillo’ che Herbert Mitgang firma per il “New York Times” ci dà una informazione essenziale su Mary Chase; abbinata a un’inesattezza.

Nata a Denver, Colorado, nel 1906, da famiglia cattolica, irlandese, working class, Mary Chase, in effetti, non si è mai mossa da lì. Il carattere e una certa turbolenza fantastica non l’hanno resa una tizia che strologa alle finestre, facendo di un balcone Atlantide. Le piaceva il circo, aveva un certo talento ironico: dopo gli studi alla University of Denver ha praticato come giornalista. Comincia nel 1924 al “Denver Times”, passa al “Rocky Mountain News”. Era una tosta, che faceva il ‘mestieraccio’ per strada, mentre i colleghi maschi passano le ore al bar, setacciando ‘notizie’. Girava su una Ford, la mitica “Tin Lizzie”, insieme al fotografo che le faceva da spalla, Harry Rhoads: “Iniziavamo all’ufficio di polizia, la mattina, poi passavamo a un processo per omicidio al tribunale, per coprire un party, la sera, a casa della signora Crawford Hill. Di solito, finivamo verso le 23, inseguendo una sparatoria”. La cronaca consegnò a Mary Chase tutta una sfilza di ‘tipi’, di caratteri umani; aveva uno spregiudicato talento per il pezzo di costume, lo sketch, condito di sapido cinismo. Conobbe il marito, Robert L. Chase, in redazione: lui si occupava di ‘nera’, finì capo redattore poi vice direttore del “Rocky Mountain News”. Si sposarono nel 1928, lei gli diede tre figli: Michael, Barry Jerome e Colin; quest’ultimo, prof alla University of Toronto, firmò alcuni degli studi più importanti, per l’epoca, sul Beowulf.

Ma veniamo al punto. Mary Chase ha il genio per la drammaturgia. Esordisce nel 1936 con Me Third, scriverà, complessivamente, una quindicina di plays. Tutti, per lo più, dimenticabili. Tranne uno. S’intitola Harvey, lo pubblica nel 1944, resta a Broadway per cinque anni collezionando 1775 repliche; viene onorato, nel ’45, con il Pulitzer for Drama – alloro che è andato, in quel decennio, a Tennesse Williams, Arthur Miller, Thornton Wilder, Eugene O’Neill, per intenderci. Il testo è tradotto in film da Henry Koster, esce nel Natale del 1950, è un successo. A interpretare il protagonista, il folle Elwood P. Dowd, un formidabile James Stewart.

Cosa dice la storia? Poco e nulla. Il signor Dowd è un tipo eccentrico, spesso brillo, che la sorella vuole spedire in manicomio. Harvey è il nome del suo intimo amico: un coniglio alto due metri, invisibile agli altri, con cui il signor Dowd passa le giornate. Eccola, l’inesattezza del giornalista razionalista. Harvey non è semplicemente un coniglio, personaggio fiabesco scaturito da un mondo alterato, come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, per dire. Harvey è un pooka in forma di coniglio, cioè un puck, spirito dei boschi che Mary Chase eredita dalle leggende irlandesi che le venivano raccontate da piccola. Harvey è l’insolito, l’inatteso, l’incoerente, l’incontestabile magico che sferza il grigiore dei giorni; è l’insorgere del miracolo nel pantano degli atti ripetuti, è l’incidente che incendia in delirio i destini. Harvey è un puck, appunto, come quello che attraversa il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare: soltanto, ha la forma di un coniglio gigantesco, timido, impalpabile. “Questo non è un paese per Dei. Io, invece, come ho cominciato così intendo continuare: una scodella di porridge, una ciotola di latte e qualche scherzetto innocente ai villici lungo i sentieri per me era sufficiente allora come oggi. Io sono di qui, sapete, e bazzico la gente da una vita; mentre gli altri per lo più s’incaponivano a restare Dei, ad avere templi e altari e preti e sacrifici apposta per loro”, dice Puck il folletto, la creatura di Rudyard Kipling, che in un ciclo di libri (Puck of Pook’s Hill, del 1906, e Rewards and Fairies, del 1910) fornisce l’abbecedario mitologico di quella fetta di Nord.

Fin qui la toponomastica magica, animistica. Il cuore del testo, però, è Elwood P. Dowd: tutti lo pensano pazzo, ma in verità è il docile portiere degli altri mondi, è la serratura per accedere all’autentico, al di là delle illusioni. Di ciascuno, con candida ingenuità, con sorriso eletto all’illuminazione più che all’ebbrezza, Elwood riconosce il genio remoto, la bellezza che non muta, l’oro puro che giace sotto la coltre dei giorni, delle false ambizioni, dei rancori. Maldestro, perdigiorno, incapace in tutto, Elwood fa felice chi incrocia, è come l’angelo senza ali che sutura le ferite, che fa scorgere che tutto è possibile, che la pazzia è la via, che lo storpio è il sano, che l’ultimo è il primo, che una santità bruna ammanta le cose, a saperle vedere. Eppure, i parenti prossimi vedono in Elwood un nullafacente, una fonte di imbarazzo, lo scandalo: ricorrono alla medicina per raddrizzare il ‘malato’, per ‘normalizzare’ l’eccentrico. Ma la beatitudine di Elwood, imbranata e inconsapevole, riuscirà a sbalestrare la ragione dei medici, i propagatori di ciò che è giusto, i magi del bene comune. Uno di questi, addirittura, sedotto dagli sproloqui sacri di Elwood finirà per vedere il puck, a volerlo per sé, perché è indimenticabile la carezza di Harvey, la sua presenza. Perché non altro vogliamo se non abitare l’invisibile.

Mi sembra, per mettere maceria culturale al dato immediato, di leggere il formidabile Norman O. Brown di Corpo d’amore (che esce nel 1966). Ricalco alcune frasi, per movimentare il pensiero e far esplodere Harvey dai confini del film, del palco, dell’arte. “Il mondo reale non è il mondo del principio di realtà, è il mondo in cui sono onnipotenti i pensieri, in cui non si fa alcuna distinzione tra desiderio e atto”; “Il bambino, il selvaggio e il nevrotico hanno ragione: solo le cose dello spirito sono reali”; “La folle verità: il confine fra salute e follia è un falso confine… Il giusto atteggiamento è l’ascolto e l’apprendimento dei pazzi, come nei tempi andati”; “Un ordine sociale basato sul principio di realtà, un ordine sociale che fa distinzioni tra il desiderio e l’atto, tra il criminale e il giusto, è ancora un regno di tenebre”.

Harvey è stato tradotto da Tre Editori nel 2011; Mary Chase ha tentato di bissare il successo con testi di diverso e diseguale impatto. È riuscita a rompere il muro della ragione con un sortilegio, un puck, un uomo nello splendore della follia – “La vita? L’ho affrontata… fuggendola!” –, seduto sull’argine dei mondi: cosa chiedere di più?

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