Mario Desiati, lo scrittore moscio amato dall’élite progressista
Libri
Fabrizia Sabbatini
Spirito profetico. Spiriti. Spirali. Il titolo della sceneggiatura, infine, è violento & grottesco: Jeux de massacre. Gioco al massacro. Carneficina. Dove l’uomo, ridotto ad automa in paglia, hollow man, pazzo pupazzo, spaventapasseri, s’inchina alla morte, in massa. Così il vocabolario Treccani: “jeux de massacre, propriamente è un gioco di fiera consistente nel buttare giù, con delle palle, dei pupazzi collocati a distanza”. Un gioco dove non si salva nessuno – giocato da un arconte bestiale, sadico. Il testo va in scena al Théâtre Montparnasse, per la regia di Jorge Lavelli, cinquant’anni fa. Esattamente cinquant’anni fa. Nel settembre del 1970. Chiamatela profezia. Il testo doveva chiamarsi “Triomphe de la mort”. Scartarono la versione più immediata, banale, forse, “L’Épidémie”. L’epidemia. Lo ha scritto Eugène Ionesco; accade vent’anni dopo La cantatrice calva. Quell’anno Ionesco è eletto all’Académie française, nel seggio che fu di Jean Paulhan, il numero 6, attualmente vacante dopo la morte di Marc Fumaroli. Jeu de massacre fu pubblicato da Galimard, nei primi mesi del 1970, con questa didascalia: “Qui non si racconta l’agonia di un uomo, come in Le Roi se meurt: qui è una città intera che muore. Attraverso l’allegoria della peste, che incarna il male assoluto, la morte che colpisce tutti, indistintamente, Ionesco ci mostra un’ecatombe, una strage. Come le teste grottesche dei giochi da luna park, i fantocci di questa danza macabra dell’era atomica cadono tutti, uno dopo l’altro, mentre un monaco nero, figura della morte, attraversa in silenzio il palco, contemplando, indifferente, il disastro”. La tragedia è distillata in cinica ironia, irrita, aspra: ciò che allora si riferiva all’“era atomica” oggi è letto come apocalisse pandemica. La fonte immediata di Ionesco – puro start al massacro – è il libro di Daniel Defoe, Diario dell’anno della peste.
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Il testo approda immediatamente in Italia. Al Teatro Gobetti, il 10 gennaio del 1971, debutta per la regia di Gualtiero Rizzi e la traduzione di Gian Renzo Morteo (1924-1989), già traduttore, tra i tanti, di Paul Claudel, Marguerite Duras, Witold Gombrowicz. Il testo passa come Il gioco dell’epidemiae in questa formula (meglio: “Il giuoco dell’epidemia”) viene pubblicato da Einaudi, lo stesso anno. Il testo, autonomo, è edito fino al 1980, dal 1989 è accorpato nel secondo volume del Teatro completo di Ionesco, nella ‘Biblioteca della Pléiade’. E lì, nel cataclisma di quelle 1016 pagine, di fatto, scompare. All’epoca si parlò molto del Gioco dell’epidemia; così Piero Perona su “Stampa Sera” (sia lode agli archivi del Teatro Stabile di Torino): “Ionesco registra gli ultimi sussulti di una civiltà che deve estinguersi. Nero è il suo pessimismo sugli uomini che mostra, del tutto ciechi e inerti proprio nel momento di maggior pericolo”. Il giornalista registra il dilemma formale della sceneggiatura: “monocorde”. Intervistato da Giuseppe Grieco, Ionesco, a Torino per ammirare la resa italiana del suo lavoro, piglia a pistolettate Samuel Beckett (“Ha rifiutato la cerimonia del Premio Nobel, non i quattrini. Si è concesso il lusso di farsi arrivare a casa quaranta milioni di franchi e non dire nemmeno grazie. E questo sarebbe anticonformismo?”), parla di sé, “Ci fissa un istante con i suoi occhietti fosforescenti, poi risponde: ‘Non so chi sono. Ecco perché continuo a scrivere. Scrivere, per me, è un modo di pensare, di affondare nelle radici buie dell’esistenza”. In un’altra intervista, a cura di Giorgio Calcagno, Ionesco disintegra il Sessantotto: “Non basta l’aggressività biologica dei giovani per migliorare il mondo, specialmente quando sono i figli delle famiglie ricche a muoversi… Credono di fare la rivoluzione solo perché attaccano i padri, e non si rendono conto che finiscono per adorare i nonni. Chi sono i loro idoli? Mao, che ha 80 anni, il vecchio Marx, con la barba bianca. La realtà è che sono i nonni a fare la rivoluzione contro i loro figli, con l’aiuto dei nipoti”.
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Il gioco dell’epidemia è stato ripreso diverse volte: nel 2002 per la traduzione e la regia di Marina Spreafico, all’Arsenale di Milano. Ionesco viene detto “clown e sciamano”, il massacro è interpretato in “danza macabra”; così nelle note di regia la Spreafico: “Per il titolo l’autore fu a lungo incerto tra: La Catastrofe, La Peste, Epidemia, L’Epidemia in città, Il Trionfo della morte o la Gran Commedia del Massacro. In Francia venne rappresentata col titolo Jeux de Massacre. Negli ultimi anni lo studio delle epidemie e del loro impatto sullo sviluppo e sui cambiamenti sociali ha conosciuto un grande interesse. Quello che prima ispirava letterati e scrittori è ora all’attenzione di storici e scienziati. Ionesco è poeta e come tale ha affrontato il tema in modo visionario ma questa visione, come ogni valida opera di poesia, ci parla della realtà come e più chiaramente della realtà medesima”. Nel 2007 come Epidemia è messo in scena da Claudio Boccaccini, nel 2011 da Alessia Oteri; l’anno scorso è un progetto della “non-scuola” del Teatro Rasi in Ravenna. All’École de théatre Actèon di Arles Jeux du massacre è tornato in scena, questa estate.
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Nel discorso di accettazione alll’“Académie”, l’eden della cultura francese, è d’obbligo riferirsi a colui di cui si occupa il seggio. Marc Fumaroli, perciò, parlò di Ionesco. “È stato e rimane uno scrittore di diari intimi… La sua esperienza interiore, di cui traccia con spontaneità il dramma, si tiene in due poli: lo stupore infantile di essere al mondo e l’angoscia della morte. Questi due poli, violenti ed elementari, condivisi da tutti gli uomini in ogni istante, pur inconsapevoli, superano l’audacia della parola, si esprimono con maggiore immediatezza nei sogni, nelle sequenze che ci giungono dall’infanzia, nella forza contrapposta con cui si rivelano queste immagini. Il ‘me’ interiore precede ogni scrittura, è lo spettatore primo di una drammaturgia intima che può diventare teatro lirico. La collisione di questo universo interiore con la banalità quotidiana, con le sue logore convenzioni, può portare a uno stato d’animo che sta tra il tragico e il comico. Questo stato d’animo la tradizione lo ha definito grottesco. Dal 1950 si parlerà di assurdo… L’orrore di invecchiare e di morire, una passione che svergogna il mondo moderno, che non censura nulla, fa del teatro di Ionesco un esercizio spirituale e dell’autore una canna che pensa, impaziente, che non è in grado di capire né amare o pregare il Dio che anela”.
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Secondo la radice latina – che assaporiamo masticando la parola – massacro ha in sé il sacro: si colpisce qualcosa perché sia immolato al dio, per farlo sacro, cosa su cui pende interdizione, data al dio, consacrata, inviolabile. Ma la morte non monda, ed è immondo il dio cannibale. Massacre, semplicemente, è la carneficina, l’impeto del caos, uno scherzo di natura, certosino macello, che si assolve nell’indifferenza: l’uomo è stato, è, passerà. (d.b.)