07 Aprile 2023

Il mago, la Regina di Cuori, il manicomio e i fiori. “La gioia” di Pippo Delbono

Recensioni teatrali mai fatte, mi provo a inventarmene una: per la pomeridiana di domenica 2 aprile al Mercadante, lo Stabile di Napoli, è andata in scena La gioia, spettacolo di Pippo Delbono, ultima replica in città. La prima scoperta al ritiro dei biglietti è che sia un atto unico, durata un’ora e un quarto, fatti due conti mi rincuoro se considero quel che costa il parcheggio privato a circa cento metri, valeva più la pena di pagare un terzo biglietto perché l’auto guardasse lo spettacolo con noi.

Balconata di terzo ordine d’altezza, mentre aspettiamo diano i cinque minuti prima del via ci accorgiamo che giù in platea ci sono delle poltrone libere, proviamo a contrattare con il direttore di sala: Con un piccolo supplemento si potrebbe?… Sono posti riservati, di scena, dice, e mica ci crediamo, sarà un modo gentile per dire alla gente di balconata di non mischiarsi con la gente di platea. È il buio, poi luce accesa sul palco nudo, legno che è uno scricchiolio anche quando non emette suono, quando ancora nessuno lo calpesta, è come osservare il punto cieco, finale, iniziale, dal quale partono tutte le cosmogonie.

Entra in scena un uomo in camicia bianca e jeans, genti lenti, microfono, dice che lo spettacolo è dedicato a Bobò, un folle ch’è stato compagno di compagnia per circa trent’anni, conosciuto al manicomio di Aversa, e io subito non ci credo, farà parte del copione, così mi dico, a ogni città l’uomo reciterà al microfono: Questo spettacolo è dedicato a Bobò, e poi dirà di averlo conosciuto in uno dei manicomi nei più immediati paraggi.

A proposito: Che sia Pippo Delbono quest’uomo al centro? Non me ne intendo.

Si muove da subito in modo lento, come acciaccato, con la stanca sicurezza di un padrone di casa e di tutto, facendomi sentire immediatamente suo ospite gradito, rapito.

Di nuovo buio, quando torna luce c’è un uomo smilzo smilzo in giubbotto, di un rosso plastificato, che mima di innaffiare una striscia di tappeto verde sul palco nudo. Più che innaffiare è come lo cospargesse di olio, lo condisse. Buio, luce e dopo la luce dove non c’era niente è germogliato un vasetto fiorito. Torna l’uomo, tornano il buio e la luce, i vasetti sono diventati due. Refrain, i vasetti sono diventati quattro. Lo spettacolo potrebbe andare avanti così per tutto il tempo che resta, ne sarei stato più che soddisfatto, è esattamente gioia quella che provo grazie alla magia di questo piccolo gesto teatrale che sa far germogliare i fiori in vaso su una striscia di tappeto sintetico. Magari alla fine tutto il palco ne sarà ricoperto, l’estetizzazione radicale di un singolo gesto. Infingardo teatro d’avanguardia?

Ritorna la voce al microfono, che intanto si era andata a sedere s’uno dei posti di platea rimasti vacanti, allora il direttore di sala non ci aveva buggerato, e la voce ha per l’uomo in giacca rosso plastica una storia e ne avrà un’altra per l’entrata in scena successiva, una ballerina di tango, e un’altra e un’altra ancora: la sua voce è un’arca di racconti, tiene a galla le storie perché non se ne vadano sul fondo dell’oblio. In me si forma un dispiacere, una protesta: questo spettacolo non può durare un’ora soltanto, non voglio che finisca, voglio restare con gli spettri che convoca sul palcoscenico assieme al frastuono e alla luce stroboscopica, è il momento della follia, l’inchino che chi ha senno deve fare a chi non avendo il suo stesso senno può mostrargli altre strade per camminare dentro di sé e nel mondo.

È la strada della gioia? Poco importa seppoi il parcheggio costerà uno sproposito, alle brutte regaleremo l’auto al garage privato e ce ne andremo a piedi per la città, così pure il solito gesto del doversene tornare a casa propria diventerà un’avventura.

Io non credo alla follia, al fascino della follia cede chi la follia non l’ha conosciuta, m’aggrappo alla ragione ma come la follia s’aggrappa a sé stessa, per continuare a stare a galla sopra l’oblio, nell’arca delle storie, per non andare a fondo, per evitare il naufragio. A proposito di naufragi: c’è un uomo adesso che sta svuotando due sacconi di plastica nera sul palco: come sembrano soffici, potrebbero rimbalzare, come sono giusti i gesti con cui li svuota, sono morbidi cumuli d’indumenti di ogni colore, come spruzzi di pittura da un tubetto che ce li ha in pancia tutti mescolati. Ripete il gesto una, due, tre volte, è come la trovata d’apertura? La reiterazione sistematica di un semplice gesto che mette allegria, guida alla gioia?

Quando l’uomo ha svuotato non so quanti sacchi sul palcoscenico però comincia poi a sparpagliare gl’indumenti colorati, disabitati, su tutta la superficie, colmandola, allora non sarà colmata di fiori in vaso ma d’indumenti colorati e usati, bistrattati. Dal suo posto in platea la voce calma e dubbiosa e dolorosa e portentosa dell’uomo col microfono, del mago di questa regia, racconta di un mare nostro che non è nei cieli, e nel teatro irrompe una musica triste e dolce come un relitto.

Io vorrei che tutto finisse all’istante, che l’ora e un quarto dell’atto unico fosse finita cinque minuti fa, sipario chiuso prima dell’entrata in scena dell’uomo coi bustoni neri, quando ancora stavo facendo i conti tra me e me con i personaggi che sul palco avevano danzato e sognato: io c’avevo visto lo Spaventapasseri di Oz, la Regina di Cuori di Carroll, un Pierrot Lunaire, ciascuno fa i conti con l’inconscio che ha. Mi ero divertito pure quando la platea era stata attraversata dal Terrorista delle Luci a Led, mi sembrava di essere stato e in una pagina di Antonio Moresco e non più al Mercadante ma al Dubrovka, al teatro può succederti così, di passare da un continente all’altro, da quello dei vivi a quello dei morti, da quello della ragione a quello dell’irragione.

Per me poteva bastare, gioia quanto basta, per cui: perché adesso questo mare nostro che non è nei cieli, questi abiti colorati e sparsi che galleggiano sul palcoscenico nudo, la musica triste come una tempesta, un riflettore calato dalle altezze per completare il dipinto su sfondo buio e luce di salvataggio? Fossimo stati in platea e non sulla balconata di terzo ordine non avremmo avuto questo quadro d’assieme completo, l’inclemente visione del palco che scricchiola sotto il peso schiacciante degli abiti vuoti che galleggiano. Al solito la platea mantiene intatto il suo privilegio di pagare di più per poter vedere di meno. Eccola, la realtà dei naufragi.

È questa la gioia? Affogo dentro me stesso.

Mi strofino il naso coi palmi, sono un disastro.

E la gioia? La gioia di saper sentire ancora quello che non accade a te come stesse accadendo anche a te, perché è proprio così che va: siamo tutti la stessa arca. Il plancton sopra l’oblio. Lo spettacolo non finisce, il palco ha assorbito gl’indumenti colorati, gli spettri sono diventati lo scricchiolio eterno delle storie che sono state, sono, saranno. Quando mescoli tutti i colori assieme il guazzabuglio che ne viene fuori è il color legno-palcoscenico.

Deve essersi aperta una frattura nello spaziotempo, nell’ora e un quarto di un atto unico non possono succedere tante di queste cose, nell’alternanza disorientante di personaggi forsennati che si scaricano sul palcoscenico come fulmini e dell’uomo col microfono che si muove lento, che parla con voce lenta, che sembra trafitto da dolori tremendi eppure sopportabilissimi.

Proprio quando stavo rinvenendo a galla di me stesso, tirato fuori dalle storie in salvo nella voce dell’uomo con il microfono, non ti torna sul palco l’uomo con il bustone nero? “No!”, voglio gridare, “Di nuovo no!”, voglio protestare, ma è troppo tardi, il bustone di Pandora è stato aperto e: foglie. Questa volta foglie. Poi verranno fiori. Fiori da ogni parte. Dalle quinte, dalle altezze, che gran fortuna poter osservare tutto dalla balconata di terzo ordine: da quassù possiamo ammirare le foglie e i fiori con cui si onora il palcoscenico che ha assorbito i nostri naufragi, con cui si omaggia il buco nero di tutte cosmogonie. La gioia è di poter sentire ancora anche quello che non è gioia, anche il contrario della gioia, per resistere all’inverno del mondo con la primavera della gioia che ogni tanto viene, verrà, passa, passerà. Lo spettacolo finisce. Siamo tutti contenti.  

antonio coda

*In copertina: photo Luca Del Pia

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