21 Febbraio 2019

Benvenuti a teatro: il Maestro Massimo Giletti è meglio di Carmelo Bene e il siparietto con Salvini è da applausi, sembrano Wanda e Maurito

Tutte le domeniche vado a teatro. Può sembrare un gesto snob, d’altri tempi, tipo la Prima della Scala, con la pelliccia e il cappellino fru fru per lei e la cravatta nera e le scarpe lucide per lui. Lo so, ma non posso farci niente, è più forte di me, non riesco proprio a rinunciarci. Anche la domenica passata, uguale, stesso rito. Non mi trattiene neppure il posticipo della Serie A su Sky o Dazn.

Il fatto è che non devo neanche uscire di casa. Alle 20,30 mi metto bello comodo sul divano e accendo la tv su La 7. Il mio spettacolo teatrale preferito? “Non è l’Arena”! E al cospetto del Maestro, Massimo Giletti, che so, un gigante come Carmelo Bene viene ridimensionato ad attore amatoriale del Dovizi di Bibbiena. Carmelo Bene, pace all’anima sua, gli fa uno scartoccio di pugnette al Maestro. Perché Giletti è il Maradona del ’86 quando prima fa gol di mano e poi, non contento, li dribbla tutti a quei farlocchi degli inglesi. E siccome ormai conosco le potenzialità del Maestro, ho invitato gli amici a casa, per vedere lo spettacolo. Tutti insieme come si fa con l’Italia ai Mondiali – chiaro, quando riusciamo a qualificarci.

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Mi spiego. Lui, il Maestro, è al centro della scena. Silenzio. Bottiglia di latte. Ne rovescia quanto basta. E parte col monologo. Fino a metà non si capisce – non vuole far capire – da che parte sta. È con i pastori sardi? Oppure è contro di loro? Perché il latte non si deve buttare neppure se vendendolo al prezzo di mercato ci rimetti; come se il futuro dipendente pubblico 4.0 – il navigator dei centri per l’impiego – ogni mese in busta paga deve dare lui allo Stato per andare a lavorare 400 euro. Nel paragone, stessa roba. No, no, il Maestro sta col popolo, con tutto il suo rituale di gesti e tempi scenici da fuoriclasse del palcoscenico.

La trasmissione è appena iniziata e il pubblico è già lì che applaude – pubblico trattenuto a stento, dal direttore di produzione, di partire, dopo una manciata di minuti di programma, con una standing ovation liberatoria. Anche io, sul divano, applaudo, non riesco a non farlo. E commentando con gli amici siamo tutti dello stesso avviso: peccato, poteva anche starci la standing ovation.

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Mai abbassare il ritmo, diceva Keith Richards. E Giletti lo sa altrettanto bene. Così, dopo il latte versato, arriva in collegamento dal fronte di guerra – la Sardegna – Matteo Salvini in girocollo di lana marrone perché – dice lui – alla mattina, lì, in battaglia, non ha avuto tempo di mettere la camicia e la cravatta. E subito mi è venuto in mente Berlusconi quando aveva partorito l’idea geniale del “presidente operaio”. Con Salvini che non si limita a uno spot ma lo propone nella vita quotidiana: pastore tra i pastori, milanista tra i milanisti, poliziotto tra i poliziotti. E l’intervista è da Pulitzer. Perché le domande sono sensate e le risposte sempre azzeccate. Al contrario di quando Super Silvio andava da Santoro, lo faceva incazzare come una pantera e il giorno dopo aveva puntualmente 10 punti in più nei sondaggi.

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L’intervista finisce. I due attori hanno portato a casa la pagnotta alla grandissima, spalleggiandosi come Castore e Polluce e come Wanda con Maurito. E noi, in salotto, ci ritroviamo tutti in piedi a fare dieci minuti di applausi. Perché l’Italia, nel Teatro Giletti, sembra un Paese come si deve: prima l’indignazione e poi il lieto fine.

Michele Mengoli

www.mengoli.it

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