In un tempo di buoni costumi e convivenze cortesi i “duelli letterari” – o anche soltanto gli insulti che abbiano un senso dello stile e del ritmo e forse pure un significato estetico e etico e che soprattutto non si perdano nel cicaleccio della malascrittura online – sono sempre più rari. Ecco perché mi sembra interessante riesumare alcune pagine della seconda edizione di Lettere a nessuno, il libro a tratti più “cattivo” di Antonio Moresco, una sorta di diario-puzzle-epistolario della sua vita di scrittore (di scrittore pubblicato e non).
Nelle pagine finali del libro, quando ormai Moresco è un autore riconosciuto e considerato “grande” da molti (forse anche oltre il suo effettivo valore), Moresco si scaglia con forza contro Giuseppe Genna, che pure aveva amato e lodato le sue opere (forse a dismisura). Genna è l’emblema, per Moresco: “è l’emblema del letterato superaggiornato, genialoide, trasformista, opportunista e arrivista di questi anni”; la sua è “un’imbarazzante ansia di servizio a figure percepite come padrini, per poi poter diventare a propria volta padrino”; “i Giuseppe Genna, dopo i loro ‘errori di gioventù’, si trovano a ballare i loro minuetti con gli scrittori posizionati e la rete di intellettuali di gestione”; “basta che uno abbia una certa età e che abbia in mano il suo piccolo potere per diventare un’attrattiva irresistibile per Genna”; “l’arrivismo, il trasformismo, il cinismo, il continuo lavorio per allargare la propria zona di piccolo potere sinergico, senza guardare in faccia nessuno, secondo logiche che in un altro campo si definirebbero mafiose”; “una scrittura compulsiva, libri scritti in quattro e quattr’otto addizionando e assemblando stilemi presi da Ellroy, una frase e a capo, una frase e a capo, una parola e a capo, una parola e a capo” (ma a questo, cioè al Genna poeta, tornerò in seguito); “libri vomitati in poche settimane o in pochi mesi attraverso botte bulimiche e psichiche imitative esibite” – eccetera eccetera: per Moresco Genna è uno scrittore senza un’estetica propria, senza una lingua propria, un imitatore e un lecchino e un’arrivista, ossia l’emblema di tutto ciò che non è o che non vuole essere il giusto e coraggioso Antonio Moresco, che pure ha sentito l’urgenza di scrivere dell’ingiusto e vile Giuseppe Genna.
Genna non ha risposto pubblicamente all’attacco di Moresco, forse memore (mi piace pensare Genna più poeta che romanziere) delle parole di Amelia Rosselli in Variazioni: “Se dall’amore della disciplina nascesse il passo del soldato che non vince ma si ritira senza colpo ferire…” Genna si è quindi ritirato dalla sfida e ha continuato a scrivere; Moresco ha ripubblicato Lettere a nessuno e ha continuato a scrivere. Entrambi hanno avuto e hanno e avranno il destino più o meno felice che dovevano o che dovranno avere in vita e probabilmente fra cinquant’anni le loro opere finiranno fra i mercatini dei libri usati o fra i remainder; questo è il destino letterario degli autori molto stampati e poco letti.
E tuttavia i loro (pochi) futuri lettori saranno fortunati, come lo siamo stati noi – tanto i lettori di Genna quanto i lettori di Moresco. I libri di Genna infatti meritano più di quanto scrive Moresco; le sue opere migliori hanno un fascino per me misterioso e incantevole al tempo stesso, benché non riesca quasi mai a leggerle linearmente (sono libri nervosi, sono libri che innervosiscono il lettore). Il suo Hitler e La vita umana sul pianeta Terra meriterebbero uno studio approfondito, anche filosofico e etico e poetico. Quanto alla sua scrittura, ai frequenti accapo che gli rimprovera Moresco in Lettere a nessuno, bisogna dire che Moresco è un pessimo lettore di poesia, come dimostra nelle sue poche pagine su Emily Dickinson, mentre Genna si rifugia spesso nelle regioni inferiori di poeti e scrittori per così dire “oscuri” – penso soprattutto a Celan. E in fondo, nonostante la fin troppo riconosciuta grandezza di Antonio Moresco, c’è più poesia in una parentesi di Dies Irae che in tutto Canti del caos, “(quanta dolcezza, papà, nell’errore, nella sua ripetizione, nell’abbandonarci allo sbaglio, quanta delicatezza, quanta pulizia)”, come c’è più parola nell’ultima pagina de La vita umana sul pianeta Terra che in tutti i canti e le invocazioni e le voci pur affascinanti o divertenti o terrifiche di Antonio Moresco – che per inciso non mi sembra affatto un “prete”, come lo hanno definito/insultato in tanti (amo molto i preti, amo la vita monastica), compreso lo stesso Giuseppe Genna, bensì un paternalista, e non dei migliori.
Moresco esorta Genna (paternalisticamente, appunto) a non avere paura. Genna potrebbe rispondere nelle opere, magari con La vita umana sul pianeta Terra: “Di cosa si ha paura? Di avere paura e di finire di avere paura, morendo.” Ma dubito che Moresco abbia tentato davvero di raffrontarsi ai libri più turbanti di Genna, autore che forse ritiene di aver “sistemato” in quelle poche e presuntuose e pretestuose e troppo istintive pagine di Lettere a nessuno, come più recentemente ha “sistemato” Massimiliano Parente in una “letterina” pubblicata su Il primo amore (dove ho cercato invano di far uscire questo pezzo: mi hanno risposto insultandomi, benché avessi già pubblicato un articolo da loro) – curioso: Moresco se la prende con Parente soltanto quando questi gli muove qualche legittima critica artistica…
Un altro appunto, sempre da Lettere a nessuno: l’argomento Maria Corti, già curatrice delle opere di Ennio Flaiano. Nel libro Moresco la tormenta per lettera e al telefono, chiedendo un parere per i suoi manoscritti (ci sono modi più eleganti e forse meno vili di combattere, caro Antonio – per rivolgermi a te in prima persona, come fai con Genna): non gli è venuto in mente che Maria Corti preferiva semplicemente rileggere il suo amato Ennio Flaiano (lui sì postumo e appartato, caro Antonio Moresco, lui sì poeta veramente, ne La spirale tentatively) che leggere il tal Antonio Moresco?
Probabilmente mi pentirò di questo breve testo, di questo contrattacco etico e letterario, perché nonostante tutto Moresco è un autore che amo e stimo e anche Lettere a nessuno è un libro pieno di poesia e di vita vissuta e di opere scritte e sofferte. Ma l’adorazione e la lotta, per riprendere un titolo proprio di Moresco, non sono mai univoche e talvolta si contraddicono, devono contraddirsi, e quindi bisogna saper combattere anche ciò che si ama o che si è amato – forse soprattutto ciò che si ama bisogna saper combattere. Non penso che Genna, che non conosco, sia quel che dice Moresco, un vigliacco e un falso scrittore, come non penso che Moresco sia uno scrittore troppo sopravvalutato – al contrario: riconosco la verità e la forza di molte sue pagine e sono contento che la sua grandezza sia riconosciuta, seppure in maniera forse eccessiva (o eccessivamente grandiloquente).
Osservo le opere di Genna e di Moresco, che ho impilato sul tavolo per scrivere questo pezzo “arrabbiato”, questo pezzo a sua volta istintivo e fuori dalle regole e dal bon ton. Sono libri nemici? Gli esordi, Dies Irae, Canti del caos, Hitler, Italia de profundis, Gli increati, eccetera. Genna scrive, in Assalto a un tempo devastato e vile: “Oggi qualunque parola che non sia rivoluzionaria è inutile.” Moresco scrive, in un brano ripreso da Tiziano Scarpa (autore che preferisco sia a Genna che a Moresco e che mi ha insultato ricevendo questo testo) in Batticuore fuorilegge: “Invece si può anche fare diversamente, non uniformarsi, non entrare in dialogo costruttivo, dire di no, anche se ciò che ci sta di fronte è o appare infinitamente più potente di noi…” Fare le cose diversamente, caro Antonio. Ecco, pure questo è fare le cose diversamente, sia da te che da Genna, e spero che la cosa (che questa letterina, come la chiameresti tu) non ti dispiaccia e anzi ti lusinghi e forse ti faccia riflettere…