
Esistono ancora i poeti cristiani? Discorso su poesia e Cristianesimo
Poesia
Dana Gioia
Ho una passione per i moralisti, svaniti in quest’epoca che si crede libertaria per scoprirsi passatista.
I grandi moralisti si occupano dei costumi da scostumati – il loro compito: denudare il re e il passante.
In quest’epoca da basso Impero, di bassi istinti, a contrario, la fotografia dell’ennesima sciantosa – o dell’ennesimo Big Jim, è uguale – con le forme al vento, seminata ovunque, fa l’effetto di un ufficio del catasto, è burocratica macelleria. (Intendo dire un’ovvietà: il nudo è altro dalla carne messa in mostra, a ritualità di like).
Dei grandi moralisti è seducente la scrittura: assertiva, marziale, limpida, a tenaglia. Scrittura lacustre – con i draghi a riparo –, ignifuga – si direbbe – al frainteso, al riflesso, finanche alla riflessione. Il moralista – se è grande – non fa la morale: usa lo stiletto, ti costringe nelle strettoie della tua arguta viltà. Non ammette menzogne. Il suo stile sta tra l’annuncio angelico – apocalittico – e il codice delle leggi. Anche se guidato dal bene, il moralista ha in sé l’ansia di promulgare la morte: quando condanna, in fondo, è perché si è lacerato con impavida generosità.
Inutile immaginarlo pallido, a ritroso nel cilicio: il moralista, per essere tale, alterna la cella al postribolo, l’acerrima solitudine alla vita ‘di mondo’, l’altro mondo e l’immondo. Il suo dire – spesso tassonomico, tenendo a bada la canea retorica – ha il genio di chi compila un bestiario e descrive la specie amazzonica, pronta ad azzannare; più che altro, dota l’intelligenza di bestie astruse: sfingi, chimere, cervieri. Verrebbe da credere che l’anima – questo sconosciuto essere che ci divora notte e giorno – sia lo specchio dello stile del moralista: è lui a esigerla, ad addestrarla, a imbonirla, a descriverla fino al latte. I moralisti sono i veri inventori dell’anima: con il volto da toro o da giglio.
Da Montaigne a Cioran – che del moralista attinge il canone linguistico per squartare ogni morale – da Pascal a Emerson, da Chamfort a Vauvenargues e Malcolm de Chazal, il moralista può giocare al sommo mentitore, alla seminagione di sinistre vie: poco importa il vero – l’hobby dei fanatici – se all’ombra di ogni parola di acquatta una tigre.
Non è un caso se i moralisti più forti siano i francesi, avvezzi alla ghigliottina e alle relazioni pericolose, e i cristiani, che credono nella resurrezione dei corpi e nel martirio. Tra questi ultimi, uno dei moralisti più sorprendenti – per nobiltà di stile e profondità di temi – è Giovanni Bona. Piemontese, nato a Mondovì nell’ottobre del 1609, generale, per un po’, dell’Ordine Cistercense, fece di tutto per stornare gli impegni mondani, dedicandosi a una vita di alti studi, prona alla contemplazione. Non gli riuscì: papa Clemente IX lo volle cardinale – fu eletto nel 1669 –, a Roma. Bona intese il compito affilando gli studi: nel 1671 pubblica i Rerum liturgicarum libri duo, immane ricerca sulla storia della Messa e sui remoti significati della liturgia. Lo studio gli sortì fama tra i dotti e un’accusa di eresia – poi stornata – da un francescano, padre Francisco Macedo.
La sua opera più affascinante – spesso pubblicata postuma – è quella che ne testimonia le doti da maestro moralista, da esigente speleologo dello spirito. La Guida al cielo e il Corso di vita spirituale – di cui qui si offre spiccia antologia – sono degli autentici capolavori del ‘genere’, dal linguaggio frugale e feroce a un tempo. Giovanni Bona, in sostanza, addestra il ‘cercatore’ a evitare non soltanto l’esibizione mondana e gli effimeri della fama: lo induce a sfamarsi soltanto di Dio, eliminando ogni affetto verso amici e parenti (invitando, perfino, a bruciare la corrispondenza, a restare vigili nell’indifferenza). Giovanni Bona ci instrada verso la via del distacco e del silenzio dell’anima; stigmatizza gli ipocriti che si affaticano nel bene in virtù di una ricompensa divina (manco Dio fosse sotto ricatto); il suo genio si spinge a promuovere la “pia crudeltà”, a conti fatti più violenta della crudeltà pura e semplice.
Mantenne, da austero piemontese qual era, una vita sobria, appropriata a un dardo di Dio, perfino a Roma (“Visse poveramente anche da cardinale, e del poco che aveva gran parte dava ai poveri o ai missionari”, così Orazio Premoli). Morì a Roma, appunto, nel 1674, qualche giorno dopo aver compiuto 65 anni. Elémire Zolla lo antologizzò, con mole di pagine, nei Mistici dell’Occidente, tra Veronica Giuliani, John Donne e Pico della Mirandola.
Oggi l’opera di questo esteta della devozione, dal vertiginoso pregio, è pressoché assente – nel 2003 la Ares ha pubblicato Mistero d’amore, nel 2006 Olschki ha stampato la Via breve a Dio, ma sono minuzie. Ovvio: i moralisti vanno all’assalto delle nostre debolezze, s’insinuano nelle stanze private, rovesciano certezze e toilette – noi, in fondo, ci accucciamo nell’acquiescenza, tripudio dell’ego: come il passerotto che crede nella gabbia, sua sola galassia.
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Inquietarsi per ogni piccola cosa è segno che l’uomo ha poca stima di se stesso. Il bimbo picchia sulla faccia i genitori, spettina loro i capelli, morde le mammelle alla mamma, le graffia le guance; ma tutto ciò non si reputa a contumelia perché chi lo fa non è capace di oltraggiare. Procura dunque di avere con chi ti calunnia l’animo stesso che hanno i genitori con i loro fanciulli.
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In un solo giorno, purché tu lo voglia, puoi giungere al sommo della santità: basta distogliere il cuore dalle creature e volgerlo totalmente a Dio. Ecco i segni che dimostrano se la tua vita è intimamente unita con Dio: il poco amore, il disprezzo, anzi, delle cose transitorie; l’amore alla solitudine, lo studio di una maggior perfezione, il disprezzo delle opinioni e dei giudizi degli uomini.
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Il mondo è un gran teatro nel quale vi sono tanti commedianti quanti sono gli uomini. Procura, il più possibile, di essere uno spettatore, non un personaggio. Coloro che recitano faticano; ma quelli che guardano ridono e si divertono.
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Pensa che né i fanciulli né i dementi temono la morte; e tu dovresti vergognarti di non ottener dalla ragione quella tranquillità che hanno coloro che ne sono privi.
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Il silenzio raccoglie il cuore dissipato, ridona la serenità alla coscienza, dispone e rende pronta la mente a ricevere i divini influssi. Col silenzio si offre a Dio un olocausto gratissimo, di tutto l’uomo e di tutte le sue potenze, perché, chiusa la porta della bocca, rimangono tutte frenate all’interno, affinché non escano fuori per nuocere: quindi un po’ alla volta acquistano quella libertà per cui possiamo indifferentemente tacere o parlare, come giudicheremo più opportuno.
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Quello che è la grandine per i tetti, il flutto per gli occhi, debbono essere le ingiurie, le calunnie, le detrazioni per l’uomo. Non ne riceverà nessuna ferita chi le disprezzerà.
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È lodevole cosa deporre ogni ricordo dei parenti, degli amici e della patria e dei vantaggi da loro ricevuti, e rimuovere ogni speranza di qualunque bene, che possa aspettarsi da essi, riponendo la fiducia in Dio solo.
Troncare ogni relazione con loro sia di persona sia per lettera, se la carità ordinata non esige diversamente: e in questa materia spesso è meglio propendere verso una pia crudeltà che verso un’eccessiva tenerezza; e notare che il nostro amore verso i nostri consista soltanto nel desiderar loro i beni celesti e la santità della vita; quanto al resto dobbiamo comportarci come se non esistesse nessuno.
Su questo ci sono gli esempi memorabili dei santi Alessio e Giovanni Calibita e di tanti altri, che bruciarono mucchi di lettere ricevute dai loro perché non diventassero per essi fonti d’inutili cure.
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Non sono figli, ma servi quelli che, cercando se stessi e non Dio, fanno il bene ed evitano il male per evitare la confusione, il rimprovero, il rimorso della coscienza, la paura del purgatorio o dell’inferno; oppure per ottenere la lode, l’onore, la grazia della devozione, la dolcezza dello spirito, e visioni e anche la vita eterna. Per cui, tolta la devozione sensibile, diventano inquieti, impazienti e perversi, cercando sollievo nelle creature; perché in realtà sono servi e mercenari, e non servirebbero mai a Dio, se non aspettassero da Lui nessuna ricompensa.
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In questo silenzio della mente, in questa dimenticanza di tutto e nel distacco del cuore risiede la vera pace, la vera tranquillità. Questa è l’unica cosa necessaria, questo è “il regno di Dio” che è “dentro di noi” (Lc 17, 21), in cui si compiace Dio stesso, che suole essere trovato dall’anima là dove tutte le creature ci abbandonano.
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L’anima introdotta nei più segreti penetrali, parla talora, quando, sentendo in sé la presenza di Dio, manifesta a Lui i propri desideri; ma più frequentemente tace, perché crescendo la luce e l’amore, si sospende l’atto dell’intelligenza e smette di parlare, non sapendo cosa dire, per lo stupore. Allora, come un ferro attratto dalla calamita, guardando il Sommo Bene, si unisce intimamente a Lui.
Giovanni Bona