Nel volto è tutto. In effetti, siamo disposti a leggere il viso come la mano, nel cui groviglio di linee, è detto, s’avvolge il nostro destino. Nella decisione con cui il naso perfora il cosmo, nell’incavo tra gli occhi, nella preminenza degli zigomi, pensiamo – indisciplinati pupi di Lombroso – che sia dettagliato il carattere e forse il futuro di chi indossa quei tratti somatici. Perché, d’altronde, c’innamoriamo di un viso e non di un altro? Perché alcune armonie ci attraggono e altre ci repellono, reprimendo l’incontro? Ora. Quelli del Museo di Antropologia dell’Università degli Studi di Padova sono specialisti nel far risorgere i volti dall’oblio della decomposizione. Grazie alla pratica della ricostruzione facciale forense, hanno fatto rivivere il viso crudamente estatico di Sant’Antonio e quello candido di San Valentino. Ma sono anche riusciti a dare un volto a Petrarca, l’inventore dell’amore in sonetti. Ora. Al Palazzo Assessorile di Cles, il cuore culturale della Val di Non, spesso sede di eventi originali e importanti, da ieri e fino al 24 giugno, è in atto la mostra Imago Animi. Volti dal passato. Il Museo dell’Università di Padova squaderna le sue meraviglie in sei sezioni, in cui si ammirano “i calchi dei principali ominidi fossili e le loro ricostruzioni facciali anche ad ologrammi digitali” e si entra in contatto, tra l’altro, con “gli albori dell’antropologia criminale”. La curiosità della mostra, però, sta nel mescolare la disciplina scientifica – per quanto ‘spettacolare’ e con riproduzioni ‘da cinema’ – con quella artistica. Sappiamo infatti che sul ritratto – dal volto di Cristo, il Dio fattosi carne – si basa l’arte Occidentale (rispetto a quella d’Oriente), che reputa il volto il solido platonico del genio di un artista. Nella sesta sala della mostra Marcello Nebl, studioso, storico dell’arte e organizzatore di eventi musivi di particolare intelligenza, ha scelto sei artisti contemporanei (James Brown, Luigi Ontani, Ron Gorchov, David Aaron Angeli, Omar Galliani, Pietro Weber) che ci mostrano come la definizione del volto umano, dai primordi, è ossessione e prova, dissidio, incendio, gloria. D’altronde, come puoi con una parola bloccare un sentimento fuggitivo; come puoi con un tratto, con uno scalpello, dare forma all’irrefrenabile?
Intanto: come è nata l’idea di questa mostra, piuttosto particolare?
L’idea di questa mostra nasce dall’incontro con Nicola Carrara, curatore del Museo di Antropologia dell’Università di Padova e formidabile divulgatore e con Luca Bezzi, archeologo specializzato in ricostruzioni facciali forensi. La volontà è in principio quella di valorizzare all’esterno del museo patavino alcuni importanti reperti e di costruire cultura avvicinando il grande pubblico all’antropologia con il tramite del viso, elemento fondante la nostra identità.
L’idea, se non sbaglio, è quella di fondere gli studi antropologici – o facciali, penso al viso di Petrarca ‘promesso’ in mostra – alla storia dell’arte, che è poi il tuo campo. Come si coniugano queste diverse discipline?
La mostra è stata strutturata per stupire ed essere multiforme, quasi una moderna wunderkammer, dando al visitatore la possibilità di conoscere la storia dell’uomo con il tramite del volto analizzato in maniera multidisciplinare e non scontata. Per questo, accanto ad uno sviluppo espositivo più tradizionale, con l’esposizione per esempio dei crani di oltre venti ominini e delle rispettive ricostruzioni in tre dimensioni, vi sono degli innesti particolari e inaspettati, quali le ricostruzioni facciali di grandi personaggi del passato, spesso legati alla storia trentina e appunto una piccola ma intensa sezione dedicata all’arte contemporanea. Per la mostra sono stati selezionati artisti di rilevanza internazionale che fanno della rappresentazione del volto la propria cifra stilistica e che si caratterizzano per uno spiccato interesse antropologico. Sono esposte, tra le altre, tele di James Brown, con i grandi visi ispirati alle kachina dolls dei nativi americani, una singolare maschera lignea di Luigi Ontani nata dal confronto con le tradizioni alpine, un’opera dell’espressionista astratto newyorkese Ron Gorchov, moderna trasposizione degli scudi tribali africani che come maschere nascondono e proteggono viso e corpo. Vi sono poi opere di Omar Galliani e dei trentini Pietro Weber e David Aaron Angeli, da sempre affascinati dalla forza simbolica del viso e dal fascino delle maschere.
Sul volto nella storia dell’arte dovremmo scrivere enciclopedie: l’arte stessa, forse, nasce ritraendo un viso. Le tue scelte espositive riguardano il contemporaneo. Mi domando: come è cambiata nella contemporaneità la raffigurazione del volto? O forse: come vede se stesso l’artista, oggi?
Nell’arte del passato la rappresentazione del volto segue schemi molto rigidi, con minime possibilità di interpretazione. Pensiamo, quasi all’estremo, all’arte cristiano ortodossa, dove non è possibile uscire da regole che sono estremamente stringenti, dettate negli erminii. La rappresentazione del volto, specchio dell’anima e in qualche modo del divino, ha sempre spaventato, tanto che alcune grandi religioni nemmeno hanno permesso questa rappresentazione. L’artista di oggi, nel nostro contesto occidentale, vede nella rappresentazione estremamente libera del volto la possibilità di esprimere pienamente se stesso e di dichiararsi apertamente motore creativo, quasi toccato dal divino. Egli rappresenta con le facce l’umanità tutta e, cosa particolare, non utilizzando quasi mai l’autoritratto; ha acquisito, forse, coscienza del proprio ruolo proprio tramite la rappresentazione dell’umanità del volto altrui e universale, in un contesto sociale estremamente rapido, fugace, in continua trasformazione e apparentemente senza solide basi.
Ultima domanda, personale. Qual è la mostra che sogni di fare (e perché)?
Spesso le mostre che curo nascono quasi per caso, progetti frutto di incontri con collezionisti o persone estremamente interessanti e singolari, capaci di dare stimoli ed accendere la creatività. Per questo non sogno di dedicarmi in particolare a nessuna tematica, ma amo cogliere le occasioni che mi si prospettano di volta in volta.