13 Settembre 2022

“L’uomo è l’insonnia della materia”. Sono riusciti a fare di Cioran un pensatore ordinario, da comodino

Un po’ tutti, genericamente, ritratti dalla stanchezza, sgangherati dal noto, hanno riverito ed elogiato l’ultimo libro di Emil Cioran, Finestra sul nulla, da poco edito da Adelphi. A me non ha convinto per nulla, sancisce la sublime – e vile – defenestrazione di Cioran. Intanto, non mi convincono i criteri di edizioni. Finestra sul nulla si riferisce all’edizione Gallimard, Fenêtre sur le Rien, uscita nel 2019 a cura di Nicolas Cavaillès. Si tratta – leggo dalla Premessa di Cavaillès – “di frammenti messi insieme all’apice di una lunga crisi interiore e poi abbandonati allo stato grezzo o quasi”, scritti intorno al 1944; “sono le ultime pagine che Cioran scrisse in romeno” (leggo dalla quarta). Il titolo – in origine, Fereastrǎ spre Nimic – non esiste, è stato attribuito dal curatore, ritagliando dalla prima frase del primo aforisma (“L’imbecille fonda la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, finestra sul Nulla…”). Affidandosi a Cristina Fantechi, mi auguro che la versione Adelphi, figlia di quella Gallimard, abbia attinto al testo romeno e non da quello francese (traduzione di traduzione). Restano, ad ogni modo, refusi grossolani: la Premessa di Cavaillès annuncia una “appendice a questo volume” alle pagine 217-229 (p.10) che non c’è; si trova alle pagine 215-227.

Piccolezze. Appunto. Si ha l’idea, insomma, che di Cioran, pensatore anomalo, artista del verbo frainteso per ‘filosofo’, autentico fool, raspino il fondo del barile. Poveretto: alieno al mondo, eccitabile, frastornato dal dolore e dal nitore, a tratti anodino, Cioran è diventato ‘di moda’, un intellettuale de chevet, da citare a cena; è l’anatomista dei nostri tempi, il cabalista della porta accanto, che soffre di attualità: non intimorisce più, solletica; non è più l’inaccettabile, il reietto, la faina che ti rode la bile, ma il simpatico provocatore, l’avvocato del diavolo. A leggere Finestre sul nulla, per lo più, si ha la percezione di un Montaigne incattivito, colto in cattiva digestione: gli aforismi, provvisori e affrettati, appunti irrisolti, spesso sono banali (“La percezione del tempo dipende dal grado di decomposizione della nostra carne”; “La vita è una Resurrezione in un Inferno”; “Di tutte le evidenze, la più difficile da sopportare è la disperazione”), di solito registrano in bella forma pensieri poco originali (“La cultura si riduce a un impiego raffinato dell’aggettivo”; “La vita: un aneddoto in un cimitero. Una farsa al mattatoio…”): su tutto grava il parziale, l’onnipotenza della monotonia (“La felicità conduce alla noia; l’infelicità mai. Non c’è alcuna sazietà nel dolore; quanto al piacere, si svuota”). Insomma, Finestre sul nulla è ciò che è: un repertorio di chiose private, preparatorie; aborti che precedono gli scritti autentici, pubblici, che conosciamo (di lì a poco, per dire, usciranno Sommario di decomposizione, Sillogismi dell’amarezza, La tentazione di esistere). L’operazione editorialmente scorretta è far passare questo covone di aforismi imperfetti come l’opera esoterica e remota, rivelativa, magnifica di Cioran. Nella quarta, così, leggiamo che Finestre sul nulla è analogo ai Quaderni di Cioran, “uno dei vertici della sua opera. A quel libro possiamo ora affiancare – e sarà come integrare in un mosaico numerose tessere mancanti – questa raccolta di frammenti…”. Palle. Non c’è nulla, in Finestre sul nulla, che possa integrare i Quaderni, è impropria la fratellanza, lo sfiancante affiancare. I Quaderni sono davvero il ‘dietro le quinte’ di Cioran: possenti, vertiginosi, polimorfici; a confronto, Finestre sul nulla è il nulla, un apocrifo, l’unghia del mignolo, l’impeto di un peto. Ma è tutto chiaro: è più comodo stampare una ‘novità’ di poche pagine (227) a prezzo ridotto (14 euro) in formato tascabile, con contenuti commestibili, arricchiti da un nichilismo da salotto, cool, che stampare in economica i Quaderni, libro necessario, costoso (50 euro), infinito (1104 pagine), infero, quasi introvabile.

In questo modo non si cura con dedizione l’opera epocale, drammatica, apollinea e cupa di Cioran. Il Dracula del pensiero contemporaneo, il pensatore che ha dissanguato il Novecento, pare liofilizzato, ridotto in scatoletta da tonno, pummarola per condire la pastasciutta. Sarebbe stato meglio, chessò, tradurre i mefistofelici Exercices négatifs, usciti per Gallimard nel 2005. Intanto, grazie a Luca Orlandini, lo facciamo noi.    

 ***

Da “Exercices négatifs” di E.M. Cioran. Selezione e traduzione di Luca Orlandini

Quando Adamo fu cacciato dal Paradiso, invece di provare disprezzo per il suo carnefice, si affrettò a battezzare le cose. Era l’unico modo per dimenticarle, per venire a patti con loro. Le basi dell’idealismo furono poste. Né Platone, né Kant, né Hegel hanno inventato nulla; hanno consacrato astutamente il primo atto, l’Infanzia delle parole. Noi convertiamo il nostro stesso nome in sostanza, così da non dover indugiare sulle nostre disgrazie, sulla nostra decomposizione. Dal momento in cui ci chiamiamo Pietro o Paolo non possiamo più morire, ci abbandoniamo all’illusione dell’immortalità… ognuno di noi, nel pensare al proprio nome, dimentica se stesso.

In fondo, viviamo perché non esiste alcun motivo per esistere. La morte è troppo esatta; ogni ragione è dalla sua parte. È misteriosa solo per i nostri istinti. Ma per la tristezza… l’inesistenza possiede una limpidezza priva di prestigio, senza le false seduzioni dell’ignoto. Possiamo temere solo ciò che esiste. E, per tale motivo, la vita è temuta più della morte… È la vita a essere il grande ignoto, a essere gravata da un immenso fardello di assurdità e da un cumulo di opprimente irragionevolezza.

Nessuno ha mai imparato dai libri ad accettare più serenamente l’inaudito stupore che proviamo di fronte allo scorrere del tempo; le idee non hanno presa su gli atti capitali, poiché non esiste un possibile rapporto tra le loro ineguagliabili nature. Come potrebbe un’idea penetrare nella sostanza irriducibile della nostra esperienza della vita e della morte?

La Conoscenza si annulla, la coscienza giunge al suo termine. Più l’uomo avanzerà nel tempo e meno sarà in grado di cantare ingenuamente un canto della vita. Moltiplicherà le sue conquiste, asservirà la Vita al prezzo della sua. E, quando sarà materialmente il vero Sovrano della terra, sulla sua corona risplenderà un bagliore di morte. Avrà compreso troppo tardi di essere stato vittima della volontà e della coscienza di vivere, che è diventato più grande di quanto la sua sostanza lo consentisse, che ha perduto i suoi limiti quando ha abbandonato la passività estatica delle creature indolenti. È l’Azione, e non l’Indolenza, ad essere la madre di tutti i vizi; e solo i nullafacenti compensano il male prodotto dai violenti. Invece di abbandonarci a una convalescenza oziosa, ci estenuiamo, idolatri del rendimento.

Accordatemi duemila anni di vita e tutte le ricchezze del cielo e della terra: sarei triste; offritemi in dono la felicità di tutti i paradisi immaginati dalla nostalgia: e continuerei ad esserlo. E se un dio mi rivelasse gli enigmi della Verità, i miei dubbi ne uscirebbero rafforzati – e questo stesso dio, svilito e penoso. Ho elevato l’incertezza al rango del peccato e la tristezza alla dignità del vizio. Di tutti gli esemplari umani, non ne conosco uno più odioso e più ripugnante di colui che ha scoperto la “verità” e vi si è installato. Tutti i “possessori” – anche sul piano dello spirito – sono la dimostrazione della miseria di ogni proprietà. Amo solo il vagabondo che nulla cerca, nemmeno la verità, soprattutto la verità… amo solo il pellegrino del Vago – colui che, nel suo errare, meditando su tutti i miti e tutti i templi da poter oltraggiare o depredare, si comporta come un vandalo addomesticato dalla malinconia.

*

Avevo diciassette anni, e credevo nella filosofia. Vi credevo con il fervore di un parvenu e un arretrato, con quel desiderio d’istruzione che caratterizza i giovani dell’Europa Centrale, che desiderano far proprie tutte le idee, leggere tutti i libri e riscattare, avidi di sapere, il loro passato incontaminato, ignaro e modesto. Avendo preso la risoluzione di conoscere tutto, divorai senza eccezioni tutto ciò che era stato pensato e concepito; il barbaro si rivolge innanzitutto all’astrazione, poiché è questa che più lo incanta; la assorbe, la fonde al proprio sangue, che la rifiuta, ma infine l’assimila come un veleno.

Avere la presunzione di rispecchiare imparzialmente la realtà, vuol dire vivere nell’illusione dell’assoluta oggettività. Pretendere di sottrarsi alla fatalità del partito preso vuol dire rimuovere dagli istinti il loro oggetto. Tutti agiscono unicamente in base a una erronea concezione delle cose e con una visione assolutamente limitata della loro collocazione e della loro importanza. Ogni azione è una sofferenza, una profanazione dell’universale. Ma ogni azione è un segno di vita, meglio ancora, la vita stessa. Il partito preso – è la definizione di ogni essere vivente. La parzialità è la vita; l’oggettività, la morte.

Tutto ciò che respira si alimenta dell’inverificabile. Siamo melma. Perfino uno spirito nobile è solo il fango più pallido, la quintessenza della miseria slavata, della materia estenuata. La maggior parte degli uomini respirano solo per eludere le proprie incertezze. Moltiplichiamo le parole per battezzare l’indefinibile. Battezziamo le cose e gli eventi per eludere il loro intimo e terrificante Enigma. L’attività dello spirito è allora un inganno salutare, l’esercizio sistematico dell’escamotage, che ci permette di muoverci in una realtà addomesticata, confortevole e inesatta. Imparare a maneggiare i concetti vuol dire disimparare a guardare le cose. Siamo feriti, e soffriamo protetti da migliaia di formule sgargianti e vane. Ogni epoca è una somma di rovine. Ma quando ci risvegliamo e siamo soli – senza la compagnia delle parole – riscopriamo l’universo indefinito, l’oggetto puro, l’evento nudo. Da dove trarre tanta audacia, per affrontare questo mondo immediato? Invece di speculare sulla morte, la contempliamo e siamo la morte; invece di abbellire la vita e di assegnarle obiettivi, le strappiamo l’orpello delle nobili falsità, e scorgiamo che è solo un eufemismo per il male. Le grandi parole: destino, sventura, sciagura sono spogliate del loro prestigio, e vediamo una miserabile creatura alle prese con i mali più concreti, dagli organi limitati, vinta e dolente… Togliete all’uomo la menzogna dell’Infelicità, per dargli in dono il potere di vedere oltre questo vocabolo consolante e vacuo: e non potrà tollerare un solo istante la sua infelicità.

La mutevolezza della vita è la coesistenza di paradossali venerazioni, quasi sempre grottesche e, talvolta, sublimi. Tutto imita un dio; le nostre credenze, di qualunque natura esse siano, sono le caricature dell’assoluto. L’uomo è l’insonnia della materia. L’animale che non può più dormire, per colmare il vuoto delle ore, e sfuggire alla nostalgia vegetale, ha creato un mondo di fantasmi, di credenze e di chimere; si è lanciato alla conquista della vita nella speranza di dimenticare che è lui il vero moribondo. Ha voluto coprire la sua morte. Si sforza di cancellare le tracce di quella tara primordiale che induce le creature ad avvilire la Creazione. L’inutile immensità della storia – la sua creazione – si rivolterà contro di lui.

La legge di ogni esistenza è la rassegnazione alla mediocrità. Ogni biografia dovrebbe intitolarsi: “La storia di un’illusione”, poiché l’ardore della vita è solo un fuoco fatuo, uno spettacolo irreale messo in scena unicamente per i piaceri di uno sguardo insincero. Vi è una eco funebre in ogni essere.

Emil Cioran

Gruppo MAGOG