Ode a Clark Ashton Smith: l’amico di Lovecraft che spalancò le porte dei mondi oscuri
Letterature
Valerio Ragazzini
La domanda che pressa l’animo, in maniera crescente in questi anni recentissimi, è: ma il mondo contemporaneo, il mondo degli otto miliardi di esseri umani è lo stesso di quando, nel 1970, il medesimo mondo ospitava quattro miliardi di persone? “Questo” è ancora “quello” (per usare due deittici leopardiani)? Ieri e oggi sono comparabili, commensurabili? La domanda è una sola, le risposte sono, in ultima istanza, soltanto due.
T.S. Eliot e Rodolfo Quadrelli, nel lasso di tempo che fu dato loro di vivere (il secolo, tutt’altro che breve, tra il 1888 e il 1984), risposero di sì: che la realtà è sempre la stessa, che la natura umana nei secoli non varia, che il fondamento è immutabile e poggia sul substrato della sostanza. Daniele Gigli, a sua volta poeta, da lunghi anni si è posto alla scuola eliotiana e quadrelliana e questi suoi Due esercizi su poesia e conoscenza sono oggi disponibili in volume, premiati al concorso “Faraexcelsior 2024” con motivazioni dei giurati dalle quali traggo lo stralcio su cui impernio la mia critica: « [Eliot e Quadrelli furono] preoccupati, nei loro tempi, di comprendere verso quali oscuri orizzonti sta muovendo l’umanità » (p.7).
Alla stregua dei suoi maestri, anche Gigli risponde di sì alla domanda che apre questo mio intervento. E le sue fitte, dense, trentasette pagine di dissertazione formano un dittico che omaggia il lascito poetico-filosofico dei suoi due virgilii, traslandolo sin qui, dentro la postmodernità; ossia dentro un tempo che non presta orecchio a quei poeti-filosofi che non siano dei cantori menestrelli esperti nella lode della postmodernità stessa. Inoltrandosi tra le righe dei saggi di Gigli, si è condotti a capire l’entità della reazione, la tenacia della conservazione, la volontà di tradizione come apertura al futuro – ciò che nella motivazione dei giurati, di cui sopra, è denominata “preoccupazione”. E che deriva del realismo aristotelico-tomista su cui si fonda.
Sul versante opposto, dirimpetto a questa posizione, sta l’altra opzione: quella che risponde che “no, il mondo contemporaneo, il mondo degli otto miliardi di esseri umani non è lo stesso di quando, nel 1970, il medesimo mondo ospitava quattro miliardi di persone”. Tutto scorre e muta e si cangia col tempo e nella storia le età e gli uomini non ammettono fattori unificanti, né un minimo comun denominatore. Nulla resta, tranne il divenire. Nessun paragone è plausibile: è questa l’opzione di altri maestri, anch’essi impegnati nella tradizione del futuro ma, diversamente da Eliot e Quadrelli, completamente e consciamente ed esplicitamente abbandonati in balia del presente e alla sua sperdutezza.
Qui si trova il magistero dei Maurice Maeterlinck, degli Elémire Zolla. A conferma del fatto che, quando una cosa raggiunge e supera una certa soglia, quella cosa diventa un’altra. E i fenomeni di oggi, i nomi di oggi, le realtà di oggi non sono quelle di ieri o del passato, né nella forma né nella sostanza – questa è la frontiera su cui si affaccia la provocazione massima, “lacaniana” mi verrebbe da dire, per la quale la realtà non è una, non è nemmeno unica perché al di fuori e al di là e attorno a qualunque realtà (alle molteplici realtà plurali) c’è il reale, che tutte le supera e le comprende, senza essere superabile né comprensibile: né singolare né plurale bensì “uncountable”.
Prima la realtà, quindi, e poi altro. Cioè, quella porzione di reale che si raggiunge non con la morte ma attraverso e oltre la morte: quel mondo che può attenderci solo quando si è usciti dal mondo e dalla realtà. Là dove, assieme a ogni nome, anche “il nome che più dura e più onora” sarà stato totalmente dimenticato: dato che nel futuro anteriore dove tutto sarà stato, forse ciò che qui e ora reputiamo essere realtà verrà sommerso dall’abbraccio dell’onda di un oblio immenso, in un orizzonte che non è affatto detto che sia oscuro.
Andrea G. Sciffo
*In copertina: Wyndham Lewis, Portrait of T. S. Eliot, 1930s