Il rapporto tra Victoria Ocampo, la zarina di “Sur”, mecenate della cultura del secolo, e Benjamin Fondane doveva essere autentico, sigillato da una sintonia tra opposti. Fondane, il discepolo di Lev Šestov, l’amico di Emil Cioran – che verso di lui nutriva una ammirazione letale –, l’attraeva, forse, per il pensare dissennato, per la fatalità rumena del viso, perché, chissà, non era propenso a inchinarsi. Diversamente da altri ‘parigini’ che frequentavano il cenacolo di Madame Ocampo – Malraux, Drieu, Camus, Callois –, Fondane non stava ‘in posa’ – per quanto prodigiosa, vertiginosa, aquilina, seduttiva, per carità –, nulla voleva, volitivo alle voragini, se non pensare l’imprevisto, collocarsi nell’improvvido. Aveva conosciuto la Ocampo nel 1929, “una sera a casa di Šestov, in compagnia di Ortega y Gasset”; lei fu colpita dalla presenza di Fondane, lo invitò a Buenos Aires. “Restai in Argentina solo un mese e mezzo”: l’idea era di compiere un ciclo di conferenze sui “film astratti”, in una di queste, comunque, Fondane parlò del suo maestro, Léon Chestov et la lutte contre les évidences. Nel primo numero di “Sur”, è il 1931, Fondane produce un breve saggio, El cinema en el etolladero, che ragiona sulla fine del cinema come opera d’arte, sui suoi fini traditi. Non è peregrina l’attenzione di Fondane per la ‘messa in scena’ (un modo, poi, per pensare l’osceno): nel 1936, proprio a Buenos Aires, il poeta-pensatore rumeno realizza Tararira, lungometraggio in bianco e nero, con al centro quattro musicisti coinvolti in una serie di avventure burlesche, andato perduto. Nel 1933 Fondane aveva espresso il desiderio di “girare un film assurdo, su qualcosa di assurdo, per soddisfare il mio assurdo gusto per la libertà”.
Il legame tra la Ocampo e Fondane si salda il 18 giugno del 1939, a Parigi, esattamente dieci anni dopo la visita del pensatore in Argentina. Fondane è folgorato da una preveggenza, che non lo scuote, anzi, gli dona una severità preadamitica: “So che ci sarà la guerra. Lo so, sento che non ci rivedremo più”. Dopo cena, in taxi, i due arrivano presso la casa di Fondane. “Prendevo congedo da lui senza sapere che sarebbe stato un addio definitivo”, ricorda la Ocampo. “Sarei partita per Londra e, da lì, per Buenos Aires. Quando il taxi si fermò, Fondane mi chiese di attendere: voleva portarmi un pacco che voleva affidarmi. Me ne aveva già parlato, ma avevo rifiutato di prenderlo seriamente in considerazione. Ritorna dopo qualche minuto e mette sulle mie ginocchia una grande busta colma di fogli avvolta da uno spago”. Fondane affida alla Ocampo il suo libro più delicato, gesto di devozione alla sua giovinezza, al suo maestro: Rencontres aves Léon Chestov (edito in Italia nel 2017 da Nino Aragno Editore, per la cura di Luca Orlandini). Su “Sur”, nel numero di luglio del 1940, viene pubblicato il saggio introduttivo, En las riberas del Iliso; Lev Šestov era morto nel novembre del 1938; Benjamin Fondane, arrestato il 7 marzo del 1944, muore qualche mese dopo, ai primi di ottobre, nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Tra le sue ultime testimonianze, nel 1941, quasi adempiendo a una specie di lascito consegnatogli da Šestov, che negli ultimi giorni “è sempre immerso nel pensiero hindù”, Fondane pubblica Alle soglie dell’India (ora in edizione italiana, per De Piante, 2021). Nel 1932 su “Sur”, di cui Fondane è stato la firma più anarchica e anomala, senza altra malizia che sprofondare in un pensare diverso, australe al noto, commentando la celebre conferenza di Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, scrive Martin Heidegger ante la sombra de Dostoiewsky. Eccone l’esordio.
“Nessuno ignora il fatto che la Metafisica è morta a causa dei colpi che, con le norme della scienza moderna, gli ha assestato la Critica della Ragion pura del vecchio Kant. Quando questa Minerva, certa di tutte le sue armi, è sorta dalla testa del saggio di Königsberg, la gente ha pensato di non poter far altro che inchinarsi, a forza. In effetti, un grande consumo di carne metafisica si era fatto fin dai tempi in cui il mondo accettò, senza proteste, per pura stanchezza, il conclamato divorzio tra la filosofia ‘rigorosa’ e la metafisica, la secolarizzazione dei suoi beni, principalmente la morale, per il beneficio di quello che si è chiamato l’Età dei Lumi, il progresso, insomma: la civiltà.
La secolarizzazione della morale, la sua statalizzazione, per così dire, ha permesso a Nietzsche di verificare con piena libertà spirituale la sua genealogia; scoprì, secondo l’espressione di Maurras, che ‘nessuna origine è bella’. Terminata la sua opera, ha fatto credere al mondo – e ci credeva lui stesso – di aver dato il colpo di grazia alle religioni rivelate e, di rimbalzo, all’idea stessa di Metafisica. Ma distruggendo il mito delle origini divine della morale, facendo tabula rasa di esse, Nietzsche ha inavvertitamente preparato il sentiero per accordi folgoranti con la metafisica, eliminando la fonte principale della confusione, il nucleo delle antiche discordie. Finché non si sfugge dal piano del Bene e del Male, infatti, il giogo di questi concetti incancrenirà per sempre, a proprio vantaggio, tutti i dilemmi metafisici, sopprimendoli. Il Bene e il Male si sono affermati come giudici assoluti della conoscenza di ogni interrogativo, arrogandosi i privilegi di una specie di censura ‘preventiva’, che elude, con meccanica protervia, ogni domanda scorretta, sconveniente, insolita, o semplicemente mal posta. Il Bene e il Male, legati entrambi alla Necessità, avendo congiunto i loro passi a quelli della Conoscenza nascente – il mito del Peccato Originale, fino ad ora il loro parto più riuscito – si sono sempre opposti non solo alle primarie questioni metafisiche, ma anche alla questione della libertà umana.
Tuttavia, durante il Grande Interregno in cui la teoria della Conoscenza costringeva dispoticamente ogni spirito a sottrarsi da ogni conoscenza, in cui la dinastia Kant-Hegel-Husserl ha assimilato la metafisica ora al Mito ora alla Sapienza, strane figure sono emerse dalle ombre. Vocaboli nuovi – ma lo erano davvero? – urlavano disperati alle porte serrate. Una cospirazione che pareva meravigliosamente ordita, ma che solo individui isolati fomentavano in silenzio, gettava le sue reti perverse in acque torbide, nelle acque inquietanti del mondo extrafisico: Nietzsche, Kierkegaard, Dostoevskij, Šestov hanno gettato le basi della pirateria moderna in un mondo anarchico.
Questi formidabili corsari del pensiero libero, ignorando il più delle volte il luogo esatto della propria meta, per la quale si sono battuti così duramente, sono riusciti a rinnovare, in un mondo che la credeva scomparsa ormai per sempre, la sensibilità metafisica. Sentivano, cioè, che ‘nessuna delle domande metafisiche può essere posta se non a condizione che colui che interroga, in quanto tale, sia incluso nella domanda, cioè sia al centro della domanda’; ma avvertivano ugualmente che la loro posizione era falsa, sfalsata, perché il mondo non accetta di buon grado le verità ottenute dagli emarginati: ‘Tu pretendi la Verità? No, sei soltanto un pazzo, un poeta!’, ha scritto Nietzsche, impazzendo. Kierkegaard muore a poco più di quarant’anni per essere resuscitato un secolo dopo. Dostoevskij sarebbe stato il primo a ridere di scherno se gli fosse stato detto che Šestov aveva osato affermare che era proprio lui, l’autore delle Memorie del sottosuolo, ad aver scritto l’autentica Critica della Ragion pura, di cui Kant non aveva fatto altro che l’apologia. La causa della metafisica sembrava abbandonata per sempre nelle mani di avventurieri, pazzi… e poeti…”.
Ne La coscienza infelice, pubblicato da Denoël nel 1936 (Aragno, 2016), Fondane, con spirito analogo, torna su questi temi, in specie nel saggio Martin Heidegger. Sulle tracce di Kierkegaard e Dostoevskij. Che proprio a lui, su “Sur”, sia affidato il compito di confrontarsi con Heidegger, dà il senso dell’audacia della Ocampo e della pirateria filosofica di Fondane. Nel 1941 Fondane comincia a lavorare incessantemente a Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, l’opera più importante, vigorosa, testamentaria. Postuma. Edito in Italia da Nino Aragno, una prima volta, nel 2013, il libro è stato oggetto di una radicale revisione da parte del traduttore, Orlandini: la nuova edizione rivista e ampliata del “Baudelaire” è prevista per la fine dell’anno o per i primi mesi del prossimo. Eccone, intanto, per gentile concessione del curatore, un assaggio. Arcana lucidità, scrittura cristallizzata in una sfera di cobra, resa nell’ambra, si avverte – e ciò che non vogliamo ammettere ci sbatte con le spalle al muro, finalmente.
“Verrà un giorno in cui forse lo storico vorrà gettare uno sguardo sulle forme più abiette della noia nella Storia. È la noia la causa dei mutamenti improvvisi, delle guerre immotivate, delle rivoluzioni letali; non esiste causa più operante. Emerge un bisogno di sentirsi esistere, di rompere con la monotonia dell’essere, del puro pensabile; l’omicidio, la vendetta, la gioia di distruggere per distruggere si danno liberamente corso in un popolo che poco prima appariva tranquillo e saggio, il fiore supremo di una civiltà consumata. Gli storici poi sosterranno cause politiche, economiche, sociali, per tali eruzioni; è ovvio, ma non avranno visto il fatto fondamentale: che il popolo si annoiava. È la noia greco-romana a percepirsi all’improvviso come angoscia, inquietudine, a generare le inaudite crudeltà che avrebbero assicurato per reazione la vittoria del cristianesimo. Poi, dieci secoli privi di storia, un ordine immutabile, e nell’istante stesso in cui la civilizzazione è nel nuovo apogeo, in cui trionfa il pensiero greco e Aristotele, all’improvviso uno strano fenomeno invade il medioevo: una volontà tesa, costante, resa disperata dalla sofferenza e nient’altro che dalla sofferenza. Una volontà di sentirsi esistere; ma è impossibile esistere dentro categorie cognitive fisse, in un quadro sociale e religioso immutabile che sosteneva che l’esistenza è… apparenza. Cosa rivela meglio l’esistenza, se non il sentimento del dolore? Cosa attiva meglio il dolore, della crudeltà? Le anime semplici, le masse, ricorrono alla crudeltà esteriore: le inquisizioni, i roghi, il massacro degli eretici, le crociate; ma le anime raffinate si rivoltano contro se stesse. Inventeremo dunque i castighi, i cilici, digiuneremo, veglieremo ininterrottamente, ricorreremo a un’immensa immaginazione per scoprire ogni giorno nuove torture, nuove croci da portare. È su un vasto scenario di noia che ricameremo le crudeltà, le crocifissioni, che abbatteremo il nemico, il diavolo, il nulla; e quando la tortura stessa sarà impotente, e l’immaginazione esaurita, la sostanza primitiva riaffiorerà in superficie e sarà… acedia. “Assenza di Dio”, diranno i mistici; indubbiamente! ma anche assenza del diavolo, poiché nulla esiste più là dove regna la noia, l’immutabile, l’immobile. Bisogna esistere per credere; è necessario che quello a cui si crede esista, che non sia solo pensato ma sentito, e non solo pensando ma sentendo! Da qui, forse, la fede esclusiva del medioevo per il Dio crocifisso. Bisogna far soffrire a morte il motore immobile di Aristotele, per donargli nuovamente una parvenza di vita. Era necessario uccidere la Noia – dunque la Logica, perfino in Dio”.