16 Dicembre 2023

“Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito”. Su Giovanni Pozzi e la parola che annienta

Qualche giorno fa, Alessandro Deho’, prete inerpicatosi in una sua abbagliante, terribile solitudine, mi ha scritto una frase di Angela Gavazzi. “Non devo fare neanche il minimo sforzo per essere analitica”. Ne ha fatto un suo monito.

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Nata a Desio nel 1907, Angela Gavazzi è la nipote di Anna Kuliscioff, rivoluzionaria, giornalista, ideale fondatrice del Partito Socialista Italiano. Pare che Anna Kuliscioff fosse fervente lettrice dell’Imitazione di Cristo. Dopo gli studi di medicina, Angela matura la conversione: trentenne entra nel carmelo di Firenze, con il nome di Maria Angela dell’Eucarestia e del Volto santo; dal 1943 abita, fino alla morte – accaduta nel ’75 –, nel carmelo di Arezzo, da lei fondato. Tra i suoi “appunti” – biglietti senza altra organizzazione che la privata liturgia del verbo – preferisco questo:

“Se ti senti di sasso, pensa che il tabernacolo è di sasso, eppure adempie perfettamente al suo ufficio”.

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Un’antologia di testi di Angela Gavazzi è raccolta in Scrittrici mistiche italiane, straordinario repertorio realizzato da Giovanni Pozzi e da Claudio Leonardi per Marietti, nel 1996. Il testo di Pozzi, in particolare, L’alfabeto delle sante, fa capire l’illecita specialità del linguaggio mistico femminile. Si tratta – trattazione in cui Pozzi eccelle – di linguaggi sulla soglia, a fior di labbra, con i chiavistelli: alle donne è obbligato tenere diari che giustifichino la loro esperienza dell’invisibile, oppure è vietato scrivere, consegnando alle bende il talento. Spesso le donne non devono scrivere ma ‘dire’: altri ne riferiscono la cronaca di visioni, allucinazioni, sogni. A volte le donne sono analfabete: raddoppiata priorità dell’andare a caccia di verbi. La parola, cioè, è sempre brutalizzata: incenerita per eccesso – l’immane diario di Veronica Giuliani –, oppure frutto di lento distillato di brace. In ogni caso, vige la vocazione al divieto.

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La parola, in questo caso, non deve avere senso ma essere sensibile, deve farsi sentire.

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Parola come richiamo durante la caccia. Che Dio sia la preda? Che sia il lupo della fatidica favola?

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Parlare: imitare i passeri del bosco, le finiture delle foglie autunnali.

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La parola, per dirsi, deve essere spezzata: tutto il contrario della “letteratura”. La lettera deve essere tradita, deve essere crocefissa. Dalle ferite inferte, il balsamo del linguaggio; scrivere, cioè: tenere il Graal. “Il mistico ha messo sovente a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora” (Pozzi). Il vocabolario deve essere raso al suolo.

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Parola, spesso, che non ha un pubblico, ma un giudice. Il lettore deciderà se l’esperienza testimoniata dalla mistica è veritiera o demonica. Santa o strega? Per una parola di troppa si è anatema.

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Dire l’indicibile: annientare ogni dottrina. Anche la catechistica grammatica è inerte: il Verbo è giunto per risignificare il verbo. Qual è il frutto? Tornare analfabeti.

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“In quanto fornito di tutti gli attributi, Dio è predicabile; ma in quanto trascendente tutti i livelli dell’essere che possono essere sperimentati, Dio è ineffabile: nominabile e innominato. La parola del mistico cerca di coprire la distanza abissale che corre fra queste due proposizioni”. (Pozzi)

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Spesso gli scritti di queste donne sono turbati da interpolazioni, contraffatti e smisurati da mani che si rincorrono: all’autorialità si contrappone l’alterità. Sequela evangelica: il Verbo non si inscrive in un libro di codici o di ricercati aforismi. Il Verbo è sempre flagellato, tumefatto.

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Spesso si tratta di donne che hanno vissuto. Spose, madri, a volte di alti casati; dalla screanzata giovinezza. Ne segue – per tragedia o decisione improvvisa – uno stravolgimento di vita, passata ai piedi del Cristo. Estasi e perdizione coincidono: Iddio fa razzia, opera annientando. “Perdette tutta lei propria, dentro e di fuora”, è scritto di Caterina Fieschi, nobildonna genovese vissuta nel XV secolo.

“Viveva quasi fuora delli sentimenti dell’anima, in modo che non conosceva più né anima né corpo”.

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Il nulla: esperienza primaria per avvertire il Tutto. “O annichilizione di volontà, tu sei regina del cielo e della terra”. Scrostare dalle scorie la condizione umana, per l’adamitica primizia: come si parlava all’epoca in cui non esisteva mio e tuo, cielo e terra, bene e male e gli attributi erano sgravati di senso, falene nella gola dell’angelo degli annunci?

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Secondo il lessico mistico vittima vuol dire: “una creatura in stato di passività relativa a una completa donazione a Dio, così da esser disposta all’immolazione”.

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Passione/passività; immacolata/immolata.

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Finalmente inutile, più povera del più puro mendicante: la parola che ne esce si può manducare, maleducata al senso, va masticata. Che dica nulla è tutto.

La fierezza di essere inutili – mera palta sotto i Suoi palmi. E lì, sfiorire.

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“La prima opera che fai entrando nell’anima è che disfai tutto tutto quello che è creato e la vai annichilando, dandogli talmente la cognizione di sé che se le creature gli domandassino quel che gli pare essere, risponderebbe che non è altro che un nichilo, un niente!”

Maria Maddalena de’ Pazzi

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Giovanni Pozzi è nato cento anni fa, a Locarno. Ha curato, tra l’altro, l’opera critica dell’Adone; si è occupato, soprattutto, dell’al di là del linguaggio, dell’ombra delle parole, dove, forse, per ombra di ombra, si può scorgere Iddio, acquattato su di sé, di sé preda. Dio: giacimento nel greto della parola, nel lapsus, nel provvido frainteso.

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Alcuni libri di Pozzi sono in catalogo Adelphi. Di questi, il più misero – eppure scintillante – s’intitola Tacet (2013). Si dice del senso del silenzio e della solitudine: elementi che sembrano in contrasto con la natura umana, parlante, sociale. “Solo capace di solitudine è l’individuo che sa sottrarsi alla banalità quotidiana, il che comporta fuga dal consorzio umano”. Chi resta a lungo in silenzio – anche soltanto mezza giornata, sei o otto ore, senza clangore intorno né cellulare alla mano, sa cosa vuol dire lo shock di un amico che torna a casa, le parole in mandria – anche affettuose – che rovinano lo spazio di quiete e di sete, rovesciano le panche, spaccano la cupola di sé. Silenzio: fino a non saper più articolare una frase. Fino a che parlare sembra un carcame di legna umida, pesante: non fa fuoco.  

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Un brano di quel piccolo libro, quasi un breviario, vale la pena di essere ricalcato:

“L’alternanza di giorno e notte, connaturata alla vita, si è attenuata. Tale e quale la corrispettiva di parole e silenzio. Viviamo in un’epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori… Una volta si percepivano solo le parole del vicino. Poca distanza bastava per sottrarsi al fastidio d’un ascolto indesiderato; oggi ci arrivano le parole dagli antipodi. Il grembo del silenzio notturno è rotto dal fragore delle macchine. Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del bosco; e vi si va con la radio; spaventa la quiete dell’appartamento, e la si accende… L’uomo aveva tratto dall’alternanza di giorno e notte, parola e silenzio i simboli che gli permettevano di definire fatti interiori; oggi non agiscono più. La nostra esistenza si è impoverita per non sapere tradurre in figure interiori quelle esperienze primordiali”.

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Oggi chi si trova a vivere in spazi isolati, a mo’ di sequela, deve costruire nuovi simboli per non vanificarne il senso, il ritmo. I vecchi simboli li ricompone il colto, l’enciclopedista, l’antropologo: sono vuote carene d’oro, cariatidi, crisalidi senza più dèi. Ci è detto che il cielo brucerà, che la terra verrà rinnovata: questo deserto – dove anche il deserto è fenomeno turistico come un altro, ci andiamo in skilift, con erboristici intenti – è forse il segno.

Quando non si intravedono più ferite, tutto è ferito, infierisce.

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Che queste donne, ad esempio, scrivano per cancellarsi, spesso sul bordo, sullo scarto, fa pensare a cosa sia poesia, cosa la posa, cosa il posare e lo sposalizio.

Gruppo MAGOG