“Una volta, non ricordo più dove, mi hanno chiesto cosa pensavo della Leica e ho detto che poteva essere un bacio bollente e appassionato, poteva essere anche un colpo di rivoltella, poteva essere il lettino dello psicanalista. Si può fare tutto con la Leica”.
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Prima di lui, semplicemente il nulla. Certo, qualche rudimentale (e costosa) sperimentazione, relegata a pochi eletti, ai danarosi intellettuali ricchissimi che, nella noia più noiosa, osservavano cosa usciva da quella dannata scatola di legno che imprigionava il dagherrotipo, inventato più o meno un secolo prima e che forniva un’unica copia positiva, non riproducibile, su supporto in argento o rame argentato sensibilizzato, in camera oscura, mediante esposizione a vapori di sodio.
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“La fotografia è un’azione immediata, il disegno una meditazione”.
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È stato definito l’occhio del secolo. Per la bravura a imprigionare in uno scatto, per l’eternità, persone, cose e fatti che hanno fatto la storia del Novecento. Il suo segreto? Semplice, in apparenza: “Fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”.
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HCB, pur attraverso una minima eleganza formale, privilegiava l’approccio documentario; ma non una documentazione analitica bensì un documento istantaneo, istintivo, sintesi di una situazione colta velocemente nel suo divenire. Una percezione più umana che meccanica colta dall’occhio nel momento irripetibile in cui un evento si manifesta.
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“La fotografia non è come la pittura. Vi è una frazione creativa di un secondo quando si scatta una foto. Il tuo occhio deve vedere una composizione o un’espressione che la vita stessa propone, e si deve saper intuire immediatamente quando premi il clic della fotocamera. Quello è il momento in cui il fotografo è creativo. Oop! Il momento! Una volta che te ne accorgi, è andato via per sempre”.
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Henri Cartier-Bresson se ne è andato 15 anni fa, nel 2004 quando, anche per motivi di età, aveva già smesso di fotografare (era nato nel 1908). Quello che ha lasciato però è un archivio straordinario, un racconto di un secolo, il Novecento, eseguito senza una parola (“Si parla sempre troppo. Si usano troppe parole per non dire niente. La matita e la Leica sono silenziose” disse una volta il Maestro francese). Immagini mute quindi, ma solo a una prima, superficiale lettura: evitare la grafia significa innalzare quello che si ha da dire a una dimensione universale. Scrivere parole è un limite. Scrivere senza parole è un inno all’infinito.
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Ai ricercatori moderni sempre più tesi all’esasperazione dei pixel digitali (come se una buona fotografia dipendesse dalla definizione dell’immagine – coglioni!) il Maestro risponde con una vecchia Leica e chilometri di pellicole, acidi per sviluppare, una buona carta per stampare e la “mitica” cornice nera, voluta per evitare i tagli delle foto. Il resto avviene nella testa, nella capacità di inquadrare un attimo, nella composizione. Lo sapeva bene, HCB: “In ogni caso, sfocata o meno, nitida o meno, una buona fotografia è una questione di proporzioni, di rapporti tra neri e bianchi”. Sarebbe utile disinnescare le abitudini e i selfie, il fotoritocco che trasforma una foto in un’immagine grafica, la necessità di far vedere agli altri che si sta bene quando invece la tendina del cuore è sigillata e non fa passare nemmeno un filo di luce.
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Raccontare i colori della vita attraverso il bianco e nero. Non aveva altre possibilità, HCB. E questo limite è diventato la sua forza: restituire a chi osserva una sua immagine la “forza” arcobalenica della vita che accade che gli passa davanti agli occhi.
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Qual è la foto più bella di Henri Cartier-Bresson? Di certo quell’uomo ama le linee, a differenza di Federico Fellini che ha abolito gli spigoli. Le linee delle strade, le linee tracciate dagli sguardi delle persone che ha fotografato, le linee della terra, le linee degli edifici. Da un punto A ad un punto B la strada più diretta e veloce è quella che non prevede curve.
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Siamo nel Kashmir, alla fine degli anni ’40. Quattro donne di spalle, una sola è in piedi. Con un gesto delicatissimo, alza la mano verso il cielo, mentre la montagna risponde con una manciata di nuvole. Di fronte all’incanto, sarebbe bene abbassare lo sguardo. Per rispetto.
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“Ci sono scuole per qualsiasi cosa, dove si impara tutto e alla fine non si sa niente. Una cosa è certa, non esiste una scuola che ti insegni a vedere, non esiste una scuola per la sensibilità. Non esiste, è impensabile. Ci vuole un certo bagaglio culturale”. Verrebbe da dirlo a chi si iscrive ai corsi di fotografia, a chi si laurea in fotografia. A chi cambia macchina fotografica digitale ogni sei mesi perché nel nuovo modello ci sono più pixel. Cagate. La sensibilità non è quella degli ISO (o degli ASA) ma quella della mente.
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“Se le foto non sono abbastanza buone, non siete abbastanza vicini”. Lo ha detto Roberto Capa, uno dei fondatori, assieme a Henri Cartier-Bresson, dell’Agenzia Magnum, un’istituzione per chi è appassionato di immagini. Ha fatto giusto in tempo a spiegarlo al mondo, Capa, che poi è saltato in aria su una mina antiuomo.
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“Ogni volta che premo il pulsante dello scatto, è come se conservassi ciò che sta per sparire”. Ogni volta che si preme il pulsante del cuore è come se si volesse preservare e proteggere un affetto, introdurlo non in un hard disk ma nell’argenteria della memoria, quella da lustrare con attenzione e delicatezza. Un esercizio di stile, elegante, oggi purtroppo dimenticato.
Alessandro Carli