Gli Atti di Tommaso, apocrifo del Nuovo Testamento, ci è giunto in manoscritti siriaci – il più antico, per frammenti, è del V secolo – e greci – del X e XI secolo. Il testo, redatto probabilmente nel III secolo, racconta le imprese “dell’apostolo Giuda Tommaso… a convertire l’India”. A Thomas/Theomà è affidata l’India; Thomas/Theomà significa “gemello”. Secondo Tommaso d’Aquino, “Tommaso significa abisso o gemello. Ora nell’abisso si riscontrano due cose: profondità e oscurità”. Giuda “gemello”, Giuda “abisso” va a Oriente – il luogo dove ci si disorienta. Un gioco di specchi.
Ogni quest prevede il gemello – il confronto contro l’altro se stesso – e un abisso da solcare.
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Nel capitolo nono degli Atti di Tommaso, dal verso 108, Giuda Tomaso impenna il suo dire nell’inno, il cosiddetto “Canto della Perla”. Scritto in versi, con i toni della fiaba mistica, racconta la storia di un giovane principe inviato in Egitto a recuperare “la perla che è in mezzo al mare/ circondata da serpente che sibila”; soltanto così “sarai erede del regno”. Il principe, addobbato secondo il suo rango, attraversa tre luoghi – Maishan, Babel, Sarbug –: svestito della sua stola, in Egitto, il luogo dell’iniziazione, indossa gli abiti degli abitanti del luogo, e si perde, di sé dimentico. Una lettera in forma di aquila (“essa volò nelle sembianze dell’aquila/ che degli uccelli è re”), spedita dai “dignitari d’Oriente”, scioglie il principe dal suo sonno, da quella geroglifica abulia: riuscirà dunque a rubare la perla – che da sempre è lì per lui, predisposta alla prova – costringendo il “terribile serpente che sibila” al sonno. È questa una delle scene più potenti dell’inno:
“Incominciai a incantare
il terribile serpe che sibila:
lo preparai al sonno, costruii per lui
una culla di nomi, pronunciando
su di lui il nome di mio padre
e quello di mia madre, regina d’Oriente”.
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L’inno, di matrice gnostica, è installato negli Atti di Tommaso come corpo a parte. Nella cornice narrativa, Giuda Tommaso canta l’inno dopo preghiera rituale, “in prigione… nel paese degli Indiani”. India ed Egitto, terre tradizionalmente legate alla sapienza, sono prigionie: non permettono all’eroe di sprigionarsi. Egitto, nella Bibbia, è il luogo della schiavitù – di Israele – e dell’esilio – di Gesù. Egitto è anche il luogo del sogno – Giuseppe – e dei miti di morte e resurrezione; Egitto è la terra che pensa la morte (Erodoto). India ed Egitto devono essere superate, devono essere indossate, perché la grande cerca di sé – che è poi l’annientamento del sé – vada a buon fine.
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Il “Canto della Perla”, di perlacei versi, procede per enigmi: è una storia stratificata, i cui codici possono essere dissigillati soltanto dagli iniziati. Secondo alcuni – Hans Jonas, ad esempio – la perla sarebbe l’anima, che il Figlio del re deve liberare dalle spire delle tenebre.
Per il principe, comunque, non è finita lì la prova. Dopo aver piegato il serpente, deve vincere se stesso. Nel viaggio di ritorno – Sarbug, Babel, Maishan – recupera “l’abito splendido che mi era tolto”. Si riveste di sé, del sé di cui si era spogliato “fin dall’infanzia”. L’abito che indossa è, ora, “uno specchio di me stesso:/ benché fossimo distinti/ unico era il sembiante”. L’abito/specchio è il gemello del principe: “l’immagine del re dei re/ era interamente ricamata e dipinta su di esso”.
Rivestirsi di sé per espiare il sé, per espirarlo ed esporlo, lasciandosi ispirare dall’altro, il re.
Secondo Hans Jonas, la veste “simboleggia l’io celeste o eterno della persona, l’idea originaria, una specie di doppio o ‘alter ego’ preservato nel mondo superiore, mentre essa si affatica quaggiù: come dice un testo mandeo, «la sua immagine è mantenuta sana e salva al suo posto»”.
L’immagine – l’io e il suo doppio – va magnificata incenerendola.
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Il principe – a differenza del cavaliere nei poemi epici – non affronta i nemici (o presunti tali). Tra gli egiziani, pur “in comunione con l’impuro”, indossa i loro abiti; straniero, si immerge in mezzo a loro. Così, il serpente/drago, avvolto attorno alla perla – l’Uroboro, di cui abbiamo antiche raffigurazioni nei papiri egiziani – non deve essere ucciso, ma incantato, cullato, spinto al sonno pronunciando nel modo adatto gli adatti nomi. Gli Ofiti, una tra le sette gnostiche, veneravano il serpente: aveva permesso ai primi uomini, imbambolati dal Demiurgo, di liberarsi dal suo dominio, di far librare la conoscenza.
La parola che fa breccia nel principe ha forma di aquila; senza la lettera non avrebbe i nomi atti a imbrigliare nel sonno il serpente.
Le creature di questo mondo – potenze o potenzialità – non vanno annientate, ma annoverate a sé.
Bisogna “diventare estraneo alla propria famiglia”, come scrive il principe, ed estraniarsi da sé, per compiersi.
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Come ogni fiaba mistica, anche il “Canto della Perla” non si conclude con una risposta, con una risolutiva morale. La fiaba testimonia una parte del percorso, per sua natura infinito. Il principe “adora la maestà” del padre, “avevo adempiuto i suoi comandamenti”; il padre, “promise che alla porta/ del re dei re sarei andato con lui”.
La riconciliazione con il re è avvenuta, il regno è ritrovato, nella sua forma essenziale, di luce, i segni sono bene allineati. Ora occorre ascendere al re dei re, a lui accedere. Il principe, in offerta, gli presenterà “la perla”, la sua anima.
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Divorare le differenze e ascendere all’uno prevede: scollinare nella pazzia – estraniarsi.
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Il “Canto della Perla” – pubblicato, singolarmente, da Il Nuovo Melangolo, nel 2005, per la cura di Carlo Angelino; in appendice riproposto, per frammenti, in altra traduzione – piacque, tra gli altri, a Pietro Citati, che lo raccontò, a modo suo, in La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo (Mondadori, 1996; Adelphi, 2009). A proposito dei versi finali del canto scrive:
“Il movimento verso Dio non può finire: perché egli si sposta, si allontana da noi, fugge in uno spazio sempre più alto e remoto, celato dietro una sempre nuova cortina, mentre qualcuno immagina di averlo raggiunto”.
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Il simbolo della perla è presente nel Vangelo di Matteo: è figura del “regno dei cieli”, per raggiungere il quale di tutto – la prigionia materiale – dobbiamo spogliarci:
“Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra”.
In forma simile, la dardeggiante similitudine è ripetuta, con morale finale, nel Vangelo gnostico di Tommaso:
“Ha detto Gesù: il regno del Padre è simile a un mercante che ha della merce: trovata una perla, essendo accorto, vende la merce e tiene la perla per sé. Anche voi, dunque, cercate il tesoro che non viene mai meno, senza falli, duraturo, che nessuna tarma consuma, che nessun verme rovina”.
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Il mercante non è un principe, non può accampare eredità di alcuna sorta: eppure, ha talento nel riconoscere il valore; scaltro, sa parlare con tutti. Verbo di serpe lo muove, innocenza di colomba.
Gesù sceglie cambiavalute e racconta di mercanti: sovverte il senso che diamo al denaro, alla ‘merce’.
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Secondo l’Apocalisse, la Gerusalemme celeste, la città di Dio, dove il tempio è l’Agnello, “ha dodici porte, che sono dodici perle; ciascuna porta formata da una sola perla”.
La perla è una porta – va sfondata.
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Dal “Canto della Perla”
“Ricorda l’abito di gloria
ricorda il manto che splende
indossalo come ornamento
quando il tuo Nome sarà letto nel Libro dei Santi
e con il nostro successore, tuo fratello
tu sarai erede di questo Regno”.
La lettera era una lettera
che il Re sigillò con la destra:
contro i Figli di Babele
rabbiosi, tirannici demoni.
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Volò in forma di Aquila
tra tutti gli alati il re.
Volò, posandosi al mio fianco
ritornando da rapace a parola.
Al suono del suo volo, alla sua voce
mi svegliai dal sonno che mi stordiva.
Presi la lettera e la baciai
sciolsi i sigilli, inizia a leggere.
Con le stesse parole incise
nel mio cuore era stata scritta.
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Ricordai che ero figlio di un re
e che il mio rango attendeva di compiersi.
Ripensai alla Perla, lo scopo
per cui ero stato inviato in Egitto.
Ammirai, fino ad ammaliarla,
la terribile Serpe dal cupo respiro.
Cullai il suo sonno, ne incitai il torpore
su di lui stesi il Nome di mio Padre
il Nome di mio Fratello, il Nome
di mia Madre, Regina d’Oriente.
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Fu allora: afferrai la Perla
e mi voltai verso la Casa del Padre.
I miei abiti impuri, grezzi
li abbandonai in quel paese.
Tornai per il sentiero da cui ero giunto
alla Luce della Casa, presso le Lande dell’Alba.
Sulla strada mi feci scortare
dalla lettera, origine del mio risorgere.
La sua voce mi aveva risvegliato
la sua luce mi indicava la via.
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Su pergamena di seta, in rosse lettere
splendeva avanti a me come una torcia.
La sua guida mi incoraggiava
il suo amore mi invitava all’ascesa.
Così, attraversai Egitto
lasciai Babele alla mia sinistra
Giunsi a Maishan la Grande
caravanserraglio di mercanti
che si apre sulla riva del mare.
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Vidi me stesso nella veste
il mio io in lei riflesso.
Separati nel mondo della distinzione
tuttavia di nuovo una stessa somiglianza.
Vidi anche i Tesorieri
che me l’avevano portata:
erano due, tuttavia di stessa foggia
perché Segno di Re li siglava.
Attraverso di loro mi fu restituita la Gloria
il dono della mia regalità.
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Gloriosa Veste arcisplendente
scintilla di ogni colore:
ha oro e berillio
calcedonia e opale
sarde di innumere nitore
la sua grandezza era compiuta
con diamanti e nessuna
cucitura la fendeva.
Il Re dei Re era raffigurato
interamente su di essa.
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Vidi che su di essa
i moti della Sapienza abbondavano.
Vidi che si stava preparando
per tornare a parlare.
Udii il suono della sua musica
che sussurrava: Ecco
lui è all’opera, presiede
al compito per cui sono stata allevata
le sue opere hanno
accresciuto la mia statura”.
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Mi rivestii della veste per salire
alle Porte della Grazia e dell’Omaggio.
Chinai la testa in onore
alla Gloria di Colui che l’ha foggiata
il cui comando ho eseguito
il Solo che compie ciò che promette.
Mi ha accolto con gioia
e io restai nel Suo Regno
dove i Servi intonano
dolci canti di lode.