18 Giugno 2024

“Sono caduta nell’abisso”. Grandezza e disgrazia di Camille Claudel

È l’ora di Camille Claudel. 

Dopo l’Art Institute di Chicago adesso anche il Getty di Los Angeles rende omaggio alla straordinaria scultrice con una grande retrospettiva che consegna definitivamente anche oltreoceano Camille al posto eminente che le è dovuto nell’ arte moderna. Le sue opere intime ed effuse, sensuali e pudiche al tempo stesso godono ora di riconoscimento universale dopo che le vicende mondane e temporali a lungo hanno congiurato contro la sua fama, 

Eppure, mi viene da dire giustamente, le attuali esposizioni e gli attuali contributi finalmente sottraggono Camille al bruto dato biografico, ponendo l’accento più sulla sua mano sublime e sul suo talento visionario che sul suo trauma esistenziale. “Je lui ai montré où trouver de l’or, mais l’or qu’elle trouve est bien à elle”, riconoscerà generosamente Rodin, conscio del progressivo affrancarsi di Camille dalla matrice della sua arte.

La stessa Camille, cosciente di tale liberazione e oltrepassamento, dirà nel 1905 che l’idea non le bastava e che sua intenzione era rivestirla di porpora e coronarla d’oro. 

Chi scrive si imbatté per la prima volta nelle sculture di Camille Claudel visitando, tanti anni fa, il meraviglioso Musée Rodin di Parigi, in quell’Hotel de Biron che superbamente compenetra la dimensione naturale con quella della creazione scultorea. La sala riservata alle opere di Camille documenta attraverso alcuni dei suoi capolavori il suo genio per quanto, giocoforza, le sue sculture risultino schiacciate e messe in ombra dalla preponderante e ingombrante presenza di Rodin.

Camille Claudel lavora a Sakuntala

Il genio visionario di Rodin si espresse, come quello di Victor Hugo, incurante dei limiti e del buon senso, prorompente ed esondante, con esiti di eccezionale vigoria plastica come con enfasi non rattenuta né arginata. La scultura di Camille, per quanto compenetrata di quella lezione, si svincola progressivamente da essa e si adagia su sponde più domestiche e di sensibilità più squisitamente affinata. 

Le vicende biografiche di Camille, complici i film e i documentari che in numero sempre crescente le sono stati dedicati, è ormai universalmente nota e non ne ripercorreremo che i punti salienti. Nata nel 1864 da agiata famiglia, era di quattro anni maggiore del fratello Paul, destinato a diventare uno dei più grandi poeti francesi. La sensibilità artistica di Camille e di Paul si destò nelle estati trascorse a Villeneuve-sur-Fere, tra foreste, diruti castelli, laghi, brughiere di erica e grotte che le leggende locali volevano in antico popolate da streghe. A quell’età risalgono i primi tentativi di Camille come scultrice, con il mirabile busto che ritrae suo fratello sedicenne. 

Allieva a Parigi di Alfred Boucher all’Académie Colarossi, vi incontrò poi Rodin, di cui divenne assistente ed amante per circa quindici anni, in una relazione che la sfibrò e la prosciugò e in cui dovette anche abortire un figlio, macerandosi nella vana speranza che il grande scultore abbandonasse la compagna, Rose Beucher, mettendo fine a questo triangolo amoroso.

In una delle sue opere più celebri, L’age mur, realizzata in diverse versioni in gesso ed in bronzo, Camille ritrae sé stessa nella giovane inginocchiata e supplice che cerca di trattenere Rodin, trasposizione fin troppo scoperta della sua lacerazione interiore e dell’ineluttabilità del destino. 

“Ma soeur Camille, implorante, humiliée a genoux, cette superbe, cette orgueilleuse, et savez-vous ce qui s’arrache à elle, en ce moment meme, sous ses yeux, c’est son ame” scriverà mirabilmente suo fratello Paul a proposito del lavoro, diretta reificazione artistica dello strazio sentimentale della sorella. 

La relazione con Rodin si concluse nel 1898 e nel 1905 si manifestarono i primi sintomi della malattia mentale. Camille dette segni di paranoia, distrusse parte della sua produzione e iniziò a nutrire l’ idea ossessiva che Rodin le avesse non solo rubato delle idee ma complottasse per ucciderla. La malattia mentale era oggetto di rimozione e di vergogna nelle “buone” famiglie borghesi del tempo; una piaga che, se non si poteva estirpare, andava accuratamente nascosta. 

Prelevata su autorizzazione della famiglia dall’appartamento parigino di Quai Bourbon dove viveva ormai in uno stato di indicibile degrado, Camille venne internata prima nel 1913 nell’ospedale psichiatrico di Ville-Eurard e poi, l’anno seguente, in quello di Montfavet, presso Avignone. Lì trascorrerà il resto della vita fino alla morte, nel 1943, quando i suoi resti furono gettati in una fossa comune. 

Il buco nero di quei trent’anni di manicomio depauperati dagli affetti e dal calore umano sono scanditi da numerose lettere che rivelano pure sprazzi impressionanti di lucidità. In una lettera del 1935 ad Eugene Biot scrive:

“Sono caduta nell’abisso. Vivo in un mondo così strano, così estraneo. Del sogno che fu la mia vita, questo è l’incubo”. 

In tutto quel tempo il fratello poeta e diplomatico la andò a trovare sì e no una dozzina di volte. 

Quello del connubio tra genio e follia è di sicuro il più abusato dei cliché, uno stereotipo prima romantico e poi positivista e lombrosiano che ha condotto a infinite approssimazioni e a infinite oleografie (esiste anche l’oleografia del negativo). Non si può negare tuttavia, al netto di queste rappresentazioni facilone e stucchevoli, l’evidenza che la sensibilità artistica ed umana, nei suoi eccessi, si esponga per sua natura alla vulnerazione del mondo, che sia uno specchio deformante che accoglie tutti gli stimoli esterni e se ne fa assorbire e talora disgregare. 

Il Tasso nel manicomio ferrarese di Sant’ Anna, Hölderlin, Van Gogh, Strindberg, Dino Campana, Ligabue, Sylvia Plath, Alda Merini: i primi nomi che affiorano alla mente costellano questo panorama frastagliato del nesso fra arte e follia portando acqua al mulino di chi enfaticamente insiste su questo connubio. 

Karl Jaspers dimostrò come fra arte e follia non vi sia un rapporto causale e necessario, un’interdipendenza inevitabile fra i due termini. Però la follia può anche influenzare l’arte e in certi casi arricchirla e fecondarla, liberando le forze inespresse dell’inconscio, rimuovendo le inibizioni sociali e conferendo valore al perturbante. 

Hölderlin fu grandissimo poeta ma proprio lo sprofondare nella notte della follia lo rese unico e le poesie composte nella sua “torre” affacciata sul Neckar sono un’amplificazione smisurata della sua già immane carica lirica, nell’esempio forse più alto che la letteratura mondiale ci abbia dato di come il disvalore biografico della malattia mentale possa convertirsi in valore estetico. 

Il mito del genio maledetto in cui si pretende di imbalsamare Camille non è in realtà per lei applicabile in quanto tutta la sua produzione scultorea è anteriore all’ internamento nell’ospedale psichiatrico e nel trentennio in cui ancora visse più nulla produsse. La cesura biografica e artistica fu totale, senza mezzi termini e la malattia mentale resta solo come straziante referto biografico, non come oggetto di disamina estetica. 

Camille Claudel, L’Âge mûr, 1899

I cliché di segno opposto si appiccicarono a Camille in vita come in morte. Octave Mirabeau, suo grande ammiratore, ritenne con implicita misoginia che il fatto di trovarsi dinanzi a una donna di genio fosse una rivolta contro la natura. Oggi, con segno opposto, si fa di Camille una vedette di una storia dell’arte declinata al femminile con una pregiudiziale antitetica ma speculare e si è perfino ragionato di lei come di una “influencer” dei suoi tempi! 

Ora che anche in Italia il nome di Camille Claudel gode di universale fama fra chiunque abbia un po’ di dimestichezza con l’arte si è provveduto a colmare il vuoto d’ attenzione che le ha riservato il nostro paese con diversi libri fra cui pregevole quello di Chiara Pasetti, pubblicato da Aragno, Mademoiselle Camille Claudel et moi. Il volume, arricchito delle testimonianze dei principali critici e scrittori che di lei si occuparono, da Mathias Morhardt a Mirbeau, indaga Camille attraverso il basso continuo di Flaubert, autore d’ elezione dell’autrice, quel Flaubert teorizzatore di un’arte “che si nutre di olocausti” e del “beau pour le beau”. 

Lo stesso Flaubert che scandagliava il confine labile fra l’ispirazione e la follia, la stupidità e l’estasi, ribadendo come, per essere artisti, occorra vedere tutto in modo diverso dagli altri uomini. 

L’arte non come gioco di spirito, divertissement, ma come speciale atmosfera.

Alla pubblicazione di questo e di altri libri su Camille ci auguriamo che possa seguire anche in Italia una mostra della sua opera degna di questo nome. Nell’ideale museo mentale di chi abbia presente i suoi lavori (una novantina sono le sue opere superstiti, scampate al suo stesso furore iconoclasta) alcune sono pietre miliari della scultura moderna, veri “incontournables” dell’arte a cavallo tra i due secoli. Camille, in un progressivo liberarsi dalle radici classiche, spazia dall’assorta tensione mistica de La Priere alla deformazione grottesca del Vieil aveugle chantante, dai temi mitologici come in Clotho, la Parca che tesse il filo del Destino, all’intimità delle pose quotidiane, come in quella Femme accroupie che è anche come una contrazione in sé del proprio spirito ferito e ormai in insanabile lacerazione dal mondo. 

Il Sakuntala, che Paul Claudel riteneva superiore allo stesso Baiser di Rodin, attinge al mito indiano del riconoscimento di Sakuntala e del suo sposo e fissa con tensione plastica indimenticabile l’attimo del ritrovarsi dei due amanti. Il commovente La Valse imprigiona turbinosamente il tema eterno del rapporto tra Amore e Morte e ha ancora una volta la sua scaturigine nella passione per Rodin, trasfigurata in una resa di sensualità vibrante e rattenuta insieme. 

La Vague, realizzata prima in gesso e poi in onice e bronzo, si ispira alla Grande onda di Kanagawa di Hokusai e al Japonisme, scoperto da Camille all’Esposizione di Parigi del 1889: una grande onda sta per abbattersi su tre bagnanti nude che si tengono per mano e l’imminente cataclisma, immobilizzato in un attimo eterno, è stato letto anche come metafora autobiografica. 

A decrittare meglio di tutti l’arte di Camille fu proprio suo fratello Paul, visto meccanicamente da certa narrazione solo come colui che la fece internare e che rarissimamente le rese poi visita, quando, in realtà, il legame tra i due fu molto più simbiotico e composito anche nella separatezza. Nel 1951, quando Camille si era già spenta da otto anni, si fece promotore della sua prima grande mostra proprio presso il Musee Rodin, riconsegnando all’ attenzione del mondo il suo genio dimenticato e scrivendo la più struggente e acuta testimonianza sulla sua persona e la sua arte, “Ma soeur Camille”.

“Io la rivedo, questa superba giovane, nel fulgore trionfale della bellezza e del genio, e nell’ascendente, spesso crudele, che esercitò sui miei giovani anni”.

Claudel, nell’acutissima fra le pagine dedicate all’arte di sua sorella, tracciava netta la differenza fra la mano di Rodin, in cui tutto è compatto e massiccio, e quella leggera, aerea di Camille,

“con quel gusto sempre un po’ inebriato, quella presenza perpetua dello spirito, quei complessi o cespugli madreporici, penetrati fin nel profondo dall’aria e da tutti i giochi della luce interiore!”

L’Age mur gli appare come un’opera stupefacente e inaudita, senza parentela nell’arte dei volumi, uno strappo, una rottura rispetto a una tradizione in cui lo scultore aveva sempre affrontato una massa solida e in equilibrio su se stessa. 

“Ho parlato di questa giovinezza eroica, e poi il tentativo di vivere di grandi ali sventate dalla sventura, e infine è la catastrofe finale di questa forza trionfale e lacerata”. 

Proprio colui che le era stato più vicino e che parallelamente a lei aveva affinato la propria vena artistica fu al contempo chi la sottrasse allo sguardo del mondo destinandola alla degenza in manicomio e chi meglio di tutti seppe rendere conto delle sue aeree e straziate creazioni. 

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG