Nonostante la faccia da schiaffi. Cesare Cremonini è di Bologna, tra poco (il 27 marzo) fa 38 anni, con i Lùnapop era decisamente insopportabile, a cantare da solo ha iniziato quindici anni fa, con Bagus. Le canzoni di questo bravo ragazzo con la faccia da schiaffi non mi sono mai piaciute, né briose come quelle di Jovanotti – che ora si chiama Lorenzo – né intelligenti come quelle di Samuele Bersani – che ora è una grandinata grammaticale inascoltabile. Se ne stava lì, Caronte dei nerd, in una palude di miele. Poi stamattina, come un cretino qualunque, ascolto Nessuno vuole essere Robin. So che l’album da cui è tratto si chiama Possibili scenari. A comprarlo non ci penso proprio. So che tra gli strumenti, a tirar su le quattro pareti del disco, c’è anche il theremin di Vincenzo Vasi. Vasi ha la faccia da lupo, è di una simpatia inquieta ed è un mannaro della musica. Insieme abbiamo fatto una cosa, su un palco, certi anni fa, non ricordo dove. Ricordo che bevemmo. Ad ogni modo. Ascolto questa canzone. Ritmo da ballata che gambizza, tipico di Cremonini. Eppure la canzone arriva, tocca, entra. Parto con il pregiudizio. Fa schifo. Il pregiudizio si sgretola. Il pezzo attracca nel corpo, lo perfora. La canzone fluisce tra la lingua e l’ano, tra il palato e il malleolo, tra la punta dell’orecchio destro e il mignolo del mio piede sinistro. Figure retoriche semplici, ma concrete (“intanto i giorni che passano accanto li vedi partire/ come treni che non hanno i binari”), concetti banali, con tinta sgrammaticata (“ma certo, puoi dormire col cane/ sai quanta gente ci vive coi cani/ e ci parla come gli esseri umani”), l’affermazione capitale (“ti sei accorta anche tu che siamo tutti più soli”) che rintocca al momento giusto, a strizzarti gli occhi come spugne. Poi ci sono quei due colpi di biliardo, le due immagini, semplici come le righe della mano, che danno il vigore alla canzone: “Tutti con il numero 10 sulla schiena/ E poi sbagliamo i rigori”; “in questo mondo di eroi/ Nessuno vuole essere Robin”. Stai a vedere che Cremonini, meglio dei romanzieri oliati nel romanzo ‘sociale’, meglio dei poeti con la penna intinta nel grigiore dei tempi ingrigendo nel rimpianto del tempo che fu, ha descritto meglio di tutti il delirio dell’oggi, la frustrazione dell’adesso, la solitudine del qui. Probabilmente sono un derelitto che ha sbarre di vetro al posto delle ossa. Ieri sera guardavo Fitzcarraldo, non so perché sono ossessionato da Fitzcarraldo. Ho appuntato un paio di versi, di pensieri. “Pensavamo che la gioia fosse autoctona”; “quando la gioia veniva estratta dalle sequoie/ con triangoli di ferro”. Non so cosa vogliano dire. Per dire. Forse sono impaniato nel patetico. Non nella pietà. Nel patetico. Per questo mi piace Nessuno vuole essere Robin di Cremonini. Meglio questa canzone, ad ogni modo, del plumbeo elogio del reddito di cittadinanza e dell’ennesimo intellettuale che incocca la ramanzina su quanto siamo più sfigati ora di un secolo fa. Avesse i coglioni di vestire la calzamaglia di Robin. (d.b.)