Che cos’è la meditazione? Aldilà delle tecniche, che sono molteplici, qual è il fondo comune che non cambia al cambiare delle diverse discipline? Sì può dire che per meditare si devono rispettare almeno tre condizioni: silenzio, immobilità del corpo, attenzione al respiro.
L’attenzione normalmente rivolta ai sensi è costretta a volgersi all’interno. All’interno trova l’inferno di processi mentali allo stato selvaggio, nebulose di pensieri che attraversano fulminee la mente col loro carico di emozioni e ricordi, recriminazioni e giudizi, immagini ed echi di parole dette e sentite, che la disciplina del respiro insegna a lasciar scorrere sullo schermo della mente, senza fissarvi l’attenzione.
La meditazione, se praticata quotidianamente e con senso di avventura, cioè di ricerca, a poco a poco cambia la vita, perché cambia gradualmente il nostro stato di coscienza. C’è una bellissima definizione di Yogananda in proposito: “meditare significa morire al mondo senza morire”. È un lasciar andare tutte le cose cui quotidianamente, e per tutta la vita, rimaniamo aggrappati. Morte, imparare a lasciar andare, sono temi che tornano spesso in “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” di Chandra Livia Candiani (Einaudi, 2018): “Da piccola mi sembrava che gli adulti fossero troppo aggrappati, non si lasciavano strappare abbastanza e guarivano troppo presto, non sentivano più il mare dell’inconsistenza sotto i piedi, non erano marinai della morte”. La meditazione è un lavoro quotidiano, ed è necessario praticarla in un luogo che si sia destinato a quella funzione. “La stanza della meditazione” è anche il titolo di uno dei capitoli del libro, quello in cui Chandra parla della propria “stanza vuota”, nella quale è solita praticare e dove accoglie il gruppo di allievi che periodicamente lì si riunisce. Luogo che è nato “intorno a un gesto. Il gesto di inchinarsi, di poggiare la fronte a terra. Di scendere. È bello avere un gesto che si ripete ogni giorno […]. Tenendo fermo il gesto, notiamo che un giorno lo facciamo con commozione, un giorno con rabbia, un giorno di fretta, un giorno siamo innamorati e un’altra volta non lo siamo più, la vita ci ha toccato a fondo, la vita sembra trascurarci, e con tutto questo scorrere di eventi e di stati d’animo, insieme a tutto questo, noi c’inchiniamo”.
Meditare è una via che non sta da qualche parte nella mente, raggiungibile con l’immaginazione, con i pensieri, con l’attività intellettuale, ma è “in un dentro molto prossimo al corpo, molto distante dal carattere, in un’intimità con me che andava oltre me […]”. Ed è soprattutto una via di silenzio solitario e comunitario insieme: “non esiste il silenzio mio o tuo. Fare silenzio insieme è una profondissima comunione. Le diverse esperienze di vita, i diversi stati d’animo possono creare complicità o avversione, il silenzio consapevole unisce”. E ancora: “Ci sono infinite varietà di silenzio. Il silenzio è un po’ come la luce, bisogna affinare i sensi per accorgersi di quante diverse sfumature di luce in una giornata incontriamo”.
Si potrà credere che tutto questo lavorìo interiore in fondo assomigli molto a una sorta di fuga dalla realtà, assecondando così il luogo comune che vede nella meditazione una specie di droga che ci renderebbe indifferenti al mondo perché focalizzati su un nostro universo interno, pacificati e lontani dalle necessità della vita esteriore, dall’impegno quotidiano nell’azione. Niente di più distante dal vero: anche se “la maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace”, ben presto ci si accorge che “quello con cui entriamo in contatto è il caos della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”. Non si tratta dunque, sottolinea la Candiani, di sottrarsi alla vita, all’azione, alle sue necessità, per “fuggire in un mondo solo interno, in un oltre”, ma “sono seduta (a meditare) perché tutto brucia di illusione e di incantamento e ora so che non voglio più essere incantata, che voglio svegliarmi”. Per questa via l’autrice approda a una delle affermazioni più forti di tutto il libro, che investe un concetto fin troppo abusato come il concetto di “politico” (o meglio, di “atto politico”), ma qui come pulito da ogni incrostazione superficiale. E se conveniamo che la dimensione del politico è diventata oggi, per dirla con Shakespeare, una storia “piena di rumore e furore, che non significa nulla”, Chandra si premura invece di ricordarci che il mondo può cambiare solo se cominciamo a cambiare noi stessi, perché la postura (“fisica e del cuore”, come l’autrice sottolinea in un altro punto) necessaria per meditare è “esporsi all’essere. Dunque, sedersi in meditazione, accogliere in silenzio il respiro, conoscere senza pensare, è un atto politico. Ha una portata collettiva indelebile, mi trasforma e con me trasforma tutto il mondo attraverso il cambiamento del mio atteggiamento verso ogni fenomeno con cui vengo in contatto”.
“Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” è un libretto aureo nel quale uno può perdersi e ritrovarsi, camminare sulle tracce della poesia, incontrare momenti di autobiografia scabri e tersi come un cristallo e cogliere disseminati per le pagine, come i sassolini bianchi della fiaba, ma così come per caso, con leggerezza, tutta una serie di insegnamenti etici e pratici. E ogni pagina è pervasa da quel tono dolce e profondo, da quello sguardo infantile e guerriero insieme, dolorosamente toccato dalla vita eppure così luminoso, che caratterizza sempre anche tutta la poesia di Chandra. Poesia che d’altronde fa capolino nel libro, e prende la forma di alcuni testi, riportati nei primi capitoli, composti dai bambini durante i seminari che la poetessa tiene nelle scuole primarie di Milano. Perché fare poesia con i bambini? La risposta comprende anche il senso del meditare e, in fondo, dell’incontro: “Peter Bichsel in Quando sapevamo aspettare scrive: «è possibile ascoltare bene solo quando si tollera di non capire». Seminare la meditazione, come pure seminare la poesia a scuola, fra i bambini, significa innanzi tutto invitare a tollerare di non capire, per imparare ad ascoltare e ospitare nel corpo. Incorporare è portare umilmente al corpo ancora e ancora quello che ascoltiamo, finché l’io si stanca e allora noi cambiamo, ci apriamo al non conosciuto”.
È un racconto-saggio-poemetto dal tono colloquiale costellato di saporose citazioni questo testo, dove la stessa lunghezza dei capitoli obbedisce più a una logica di respiro organico che di argomentazione razionale. Ogni capitolo un respiro, e come ogni respiro del corpo è diverso in ampiezza sia dal precedente sia dal successivo, così la lunghezza di ogni sezione sembra seguire un ritmo analogo. Ci si può imbattere allora anche in paragrafi di mezza pagina o nel più breve: un sutra del Buddha – il “sutra del Diamante”, sei righe.
Ci sembra un libro importante questo, perché c’è una strana atmosfera intorno alle pratiche meditative; un risveglio di interesse che mette in luce la grande diversità degli approcci e concorre a creare anche molti equivoci. Meditare è un percorso che mette in gioco tutta la vita della persona, è qualcosa che scardina e consola, mette in crisi e ricentra. E si tratta di un lavoro spirituale. Mai come oggi si avverte una specie di timore a cogliere questo lato della questione. La vulgata New Age mette piuttosto l’accento sul rilassamento, sulla lotta allo stress, sul miglioramento delle prestazioni lavorative – aumento della concentrazione, maggiore energia ecc. –, sulla conservazione della salute, fisica e psichica. Ma questi sono effetti che non esauriscono la portata enorme, spirituale ripetiamo, della meditazione. Ecco allora che questo libro contribuisce, con gentilezza e grazia, a disperdere molti degli equivoci che si sono accumulati sull’argomento, i quali, funzionali come sono al mercato del benessere, certo non aiutano a districarsi in una materia che è complessa e richiede una conoscenza profonda e sottile.
Franco Acquaviva