07 Ottobre 2024

Ritrovare l’animale che siamo. Piccolo discorso sulle sacre bestie

XIII° secolo, nei pressi di Lione.

Tale Stefano di Bourbon, domenicano e inquisitore, giunto al posto indicato si ritrova, mischiato ai questuanti, davanti al sepolcro del “santo”.

Culto non autorizzato.

E pure indiziato di mescoloni pagani. Si riportano usi strani, corteggi fauneschi che ondeggiano tra gli alberi… Un bel mal di pancia ecclesiastico.

E ancora è nulla.

Chi può figurarsi il colpo che gli prende quando scopre che il venerabile in questione è pure un cane?

E non nel senso di scadente, da bassa classifica nel martirologio, di quei santi insomma che la chiesa fa bene a canonizzare ma non a esporre troppo (Gómez Dávila).

No. Questo è veramente un CANE.

Levriero, per la precisione. San Guinefort (o Guiniforte), per bocca di popolo elevato a santo e martire.

*

Ecco la storia: prediletto compagno di un signorotto locale, lo affianca nella caccia. Finché un giorno questi, rincasando, trova donne e famigli sbiancati: il figlioletto non si trova, culla rovesciata, la stanza sottosopra. Gli si fa incontro Guinefort, sangue fresco alle fauci. Pazzo d’ira lo uccide su due piedi.

Per poi scoprire resti di una vipera presso la culla e l’infante sano e salvo sotto a un panno.

Affranto per l’abbaglio, commosso dall’eroico contegno, gli fa erigere una tomba.

E qui in sequenza: fioccano miracoli; il popolo accorre; nascono leggenda e devozione.

Ora protettore dell’infanzia, il “levriero santo” vanta un seguito che insidia primati  di ben altri colleghi. I bimbi gli vengono raccomandati. C’è pure un rito di immersione di neonati in acque di torrente, non sia mai che changelins dispettosi ne abbiano preso il posto nella culla!

E lui, San Guinefort, muto, paziente come in vita, arbitra e intercede…

È troppo. Ora si che ce lo immaginiamo Stefano di Bourbon inquisitore in travaso biliare.

Uomo e dotto del suo tempo, tirato su a sententiae, Pier Lombardo e scriptura (affari esclusivi dell’Uomo mica delle bestie!), in linea col suo tempo agisce.  E fa distruggere tutto.

Inutile fargliene una colpa.

Ma la fantasia religiosa è cosa seria, tenace, degli interdetti se ne cura il giusto. Nei secoli, (fino a metà del XX°) il levriero santo continua ad essere invocato. Con discrezione, si capisce.

Da qualche parte, scommettiamo lo si invochi ancora.

(Sul culto di San Guinefort cercate in biblioteca uno dei capolavori della cosiddetta “microstoria”: J.C. Schmitt, Il santo levriero. Guinefort guaritore di bambini, Einaudi, 1982, libro che urge ripubblicare).

*

“Lo vogliamo capire… che la differenza tra gli esseri viventi, fenomeni diversi  di un’unica sostanza universale, è solo di grado, ma non di essenza?”, tuonava Anacleto Verrecchia in coda a un bell’apologo dello scoiattolo viennese.

Di là dalla validità dell’asserto, sempre più avvertiamo una stessa esigenza: i vecchi paradigmi su uomo-animale, le cesure secche, i complessi di superiorità vanno ripensati.

Noi ci proviamo così.

Che ne sarebbe di noi, della nostra stessa coscienza, delle rappresentazioni che ci facciamo senza di loro?

Agli animali dobbiamo intanto la prima, originaria nostra grammatica. Di tutte le immagini riposte in noi quelle animali non sono le più comuni? Dall’infanzia in su nulla ci è più familiare (Durand, Piaget). Ancora oggi, a scorno delle scienze sperimentali, non sbiadiscono: la volpe rimane astuta, il serpente è infido, l’elefante non dimentica mai…

L’animale è potenza che ci manca.

Estraneo, non umano e inquietante; o vicino, familiare, degno di fiducia. C’è un mistero grande negli animali, ma la prossimità è ancor più grande.

*

Dal formicolio, disagio per tutto ciò che striscia, al ruggito, alle fauci, mysterium magnum  della predazione(uccidere essere uccisi, mangiare); ebbrezza del volo, il perturbante che s’agita nelle acque profonde… Immemorabile grembo seduti sul quale abbiamo appreso tutto, ordinamento simbolico del mondo, parola poetica e rivelata. Tutti, polisemici contraddittori, sanno simboleggiare il tutto.

Vi ricorrono l’uomo e il dio.

Come dire di Alessandro macedone se non con il leone? Così il Plantageneto e tanti cesari…

Ma leone è anche Viṣṇu. E il dio-sole dei Boscimani.

E Cristo è “leone di Giuda”e agnello (e pellicano fenice elefante… conservassimo almeno un po’ dell’incanto del Fisiologo!) .

Uno stesso animale può esser al contempo preda e guida.

Il corvo mistagogo allo sciamano, l’orso maestro agli Ainu, ai messicani, uomini e dei, il nagual.

Chirone aio di Achille è figura teriomorfa e così il celta Cernunnos: pensiero mobile che non s’affanna a distinguer troppo tra umano/non-umano.

All’origine di quel che diciamo nostra “civiltà” una stessa propensione alla metamorfosi.

Il mito di Atteone: per aver scorta Diana nuda (la verità nuda?) il cacciatore diviene preda.

Qui c’è tantissimo, se non tutto. Metamorfosi, sostituzione, estrema solidarietà al vivente, vertigine. E il sacrificio. L’hanno ben visto ipersensibili osservatori (Klossowski, Brown).

Come ci siamo lasciati tutto alle spalle?

*

Padre nobile della critica all’antropocentrismo giudaico-cristiano, Karl Löwith imputa a questa tradizione il divorzio tra uomo e φύσις/natura.

È così? Siamo unici responsabili del dominio/uso/scempio del mondo animale? La critica è profonda, lasciarla cadere non si può. Certo è che la bibbia, o almeno una sua unilaterale lettura, offre il destro a proclami di antropolatrìa. Vi abbondano si immagini e aneddoti, ma davvero è parca di accenni a un destino del creato che non sia in funzione nostra.

Quando, col cristianesimo, ci si accasa con la filosofia greca la frattura è consumata. Cocktail di Aristotele, stoà, (neo)platonismi e scritture porta, assieme a sintesi possenti, eccessi razionali, spiritualizzanti, allegorici. Che mai han giovato troppo al religioso. Neppure il Poverello se ne affranca del tutto.

Un cristiano geniale, Van der Leeuw, lo rimarcava dolendosene.

Viva allora le amorevoli Videvdāt dell’Avesta iranico, dove il bue è divino e si adombrano pene ultraterrene per chi maltratti un cane. O le deliziose fiabe dei jaina, compassionevoli fino al parossismo, piene di vacche, elefanti, uccelli che battono i bipedi in saggezza e compassione.

Cerca Dio nell’animale: questo il precetto segreto dell’Egitto secondo Merežkovskij. L’Egitto che aveva capito tutto (Rozanov).Indigeribile per la morale d’occidente.

*

Eppure, ancorché rari, cenni il cristianesimo ne da e allora son folgoranti, definitivi.

“Il lupo ruzzerà con l’agnello…il lattante giocherà sulla buca dell’aspide” (Is 11, 6-8)

“Tutta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto”(Rom 8, 22)

“Poi vidi cieli nuovi e Terra nuova…” (Ap 21, 1)

Quante volte macchinalmente ripetuti nello sbadiglio domenicale…

Ma vi abbiamo mai creduto?

(Tra coloro che han preso la faccenda sul serio, vogliamo ricordare Paolo De Benedetti. Leggetevi il libro-intervista Teologia degli animali, Morcelliana, 2016)

*

Dubitiamo delle costruzioni teoriche, quelle serie e quelle pop:post-umanismi, meta-umanismi, ecologismi (tutti gli ismi dal ’900 si bisticciano la nostra attenzione).

Non ci ricondurranno indietro, non realizzeranno novità. La naturalità che vogliono è fuori portata. E mancano infine di coraggio (natura, ostaggio di Necessità, è anche ammazzatoio). Ritrovare l’animale che siamo al di là di violenza e morte non è cosa del tempo.

Inizi o fine, Eden o Èschaton. Quelli i luoghi giusti.

Metànoia: altra urgenza troppo presto moralizzata, relegata alla sola interiorità, quando avrebbe dovuto sconquassarci, noi e il mondo, ribaltando i più saldi nostri “valori”.

Ecco, quando/se giungerà il ribaltamento  (questo significa!) e persino Dio avrà un nome nuovo, la frattura sarà sanata.

And death shall have no dominion

Frale indimostrabile credenza. Ma è quel che ci resta.

*

Nel frattempo…

Niente scuse, comprensione compassione per gli animali non sono prorogabili.

Guardiamoci si da derive sentimental-idiotiche (vezzi clip e lustrini), ennesime spie d’antropocentrismo camuffato.

Almeno conteniamoci…

Agli animali dobbiamo un di più di rispetto, vicinanza, tenerezza.

E di pietà. Nel senso alto, come insegna un Martinetti.

Se proprio non riusciamo a non cibarcene (sarebbe l’optimum ma è arduo) almeno facciamoci più prossimi.Canonizzarli? Come con Guinefort non accadrà. Nemmeno è più auspicabile, troppo equivoco assist alle “anime belle”.

Cerchiamoli piuttosto sugli altari dell’immaginazione creatrice. L’asina di Balaam che vide l’angelo, il cristico Balthazar, il dolce andaluso Platero. Capi e Patrasche, cani coraggiosi. Quintilio-profeta e Moscardo-guida tra i conigli. La blakeiana Tigre/Tutto, la salgariana Dharma. Il tasso e l’astore di T.H. White. Gli uccelli di Farīd al-Dīn ʿAṭṭār. E la piccola mangusta (un po’ filobritannica) di Kipling, Rikki Tikki Tavi…

Figure che stiano per tutti gli innumeri anonimi animali, dolenti oblati alla meschina causa umanoide, tutti, predatori prede, oltraggiati dalla disastrata nostra “luogotenenza” del mondo.

Commilitoni forzati e più nobili al nostro millenario, forse insensato, patire.

Giacomo Alessandrini

*In copertina: il drago secondo Friedrich Justin Bertuch, 1806

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