Dick è vivo e voi siete morti! (Ergo: togliete PKD dalle grinfie del tronfio Carrère)
Politica culturale
Luca Bistolfi
“A pelle”. Per Vitaliano Trevisan
Letterature
Un cavallo oscuro. Che è come dire, un cavallo pazzo. Dark Horse. Così, una decina di anni fa, il Sidney Morning Herald tenta di sintetizzare la figura inafferrabile di David Brooks. 65 anni il prossimo 12 gennaio, nato a Canberra, testa lucida come la luna e barba da guru, Brooks è il poeta australiano più eccentrico e anomalo che c’è. Disciplina da vagabondo, David studia in Australia, si perfeziona in Canada, fa una tesi di dottorato su Ezra Pound e per questo fa un tour a Rimini, gettandosi nel Tempio Maltestiano, il cuore del primo nucleo dei Cantos del poeta più contraddittorio e affascinante del Novecento, “il campo di forza intorno al quale gravitano: per me il Tempio era sostanzialmente una metafora del grande progetto dei Cantos”.
Animatore culturale – sulla rivista Southerly – ribelle – polemizza, con genio, contro i governi d’Australia, ma soprattutto contro i poeti asserviti al tempo e al mondo, “che si sono convinti di essere impotenti” – Brooks è critico letterario – ha curato l’opera di A.D. Hope – romanziere – ha avuto un certo successo il suo romanzo sul pittore Balthus, The house of Balthus (1995) – saggista – nel 1990 pubblica un testo estremo fin dal titolo, The Necessary Jungle: Literature and Excess – scrittore di racconti. Soprattutto, però, Brooks è poeta. Esordio nel 1983 (The Cold Front), secondo libro più di vent’anni dopo (Walking to Point Clear, 2005), scritto dopo aver ascoltato i consigli dell’amico e maestro, il poeta polacco Czeslaw Milosz, Nobel per la letteratura nel 1980, che ha tradotto. Brooks, che incarna la poesia in una visione di vita, ora abita in una fattoria, nel pieno del bush australiano. Con la moglie, accolgono animali salvati dal macello o dalla morte per stenti. Poesia, per David, è “addentrarmi ulteriormente e più profondamente nel posto in cui sono, e imparare a raccontarlo e a difenderlo nel modo più efficace”, perché “nessun posto è isolato. Ogni luogo è politico. Ogni luogo è sotto minaccia”. Lì, fuori dal tempo, David si è costruito la “biblioteca d’erba” in cui scrive. Nella fotografia che mi invia è attorniato dalle due pecore. Simili a scaltri discepoli. Sembra preferirli agli umani.
Quando è nata la sua vocazione poetica, perché? Quali sono i suoi riferimenti culturali, i suoi ‘maestri’?
“Ho iniziato a essere attratto dalla poesia alle scuole superiore. Al secondo o terzo anno leggevo i tascabili della ‘Penguin Modern European Poets’ – Holub, Roscewicz, Herbert – affascinato da quella parsimoniosa asprezza postbellica. Ho fatto l’ultimo anno di scuole negli Stati Uniti, grazie a uno scambio scolastico, e ho conosciuto l’opera di Ginsberg e di Ferlinghetti – li ho sentiti leggere, a Cleveland, durante una notte di neve. La prima percezione della mia vocazione, tuttavia, è accaduta all’università, quando scoprii la poesia di Galway Kinnell (Body Rags), fu una profonda e immediata vicinanza. Per anni non avrei mai pensato di poter scrivere una poesia che non suonasse come la sua. Poi, quando andai a fare il dottorato in Canada, accadde la scoperta di Ezra Pound e dei Cantos (le poesie del suo Cathay furono ancora più importanti). Mentre ero in Canada, ho conosciuto la poesia di Czeslaw Milosz, e ho tradotto alcune sue poesie, con lui. Quando sono tornato in Australia ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, ma Milosz ha avuto uno strano impatto: passarono vent’anni prima che pubblicassi un altro libro di poesie, e questo perché Milosz mi aveva sfidato a situare storicamente, politicamente e metafisicamente la mia visione poetica. Ho sempre avuto una profonda attrazione per la poesia cinese classica: una specie di sintonia del temperamento. Ma ci sono anche riferimenti con la letteratura australiana. I giovani poeti di Camberra, nei primi anni Settanta, avevano alcuni mentori importanti: A.D. Hope, Judith Wright, David Campbell, Rosemary Dobson, R.F. Brissenden. E più tardi, per me, ci fu il lavoro di Bruce Beaver e di J.S. Harry. Alcuni di questi sono stati i miei insegnanti all’università, alcuni sono diventati amici intimi. Senza dubbio, ciascuno di loro mi ha influenzato. I miei riferimenti culturali, perciò, sono piuttosto complessi. Ho pubblicato, scritto e insegnato letteratura australiana per decenni. Quello è il mio riferimento culturale prevalente (e antagonista). Ma ho vissuto nel Nord America, in Grecia, in Jugoslavia (da bambino), in Francia e in Slovenia. Tutti questi luoghi hanno lasciato un segno”.
Quali sono i temi dominanti della sua poesia? La poesia dovrebbe avere un ruolo ‘morale’? Insomma, che valore ha il poeta nella società australiana?
“Dovrei dire, ‘il mondo naturale’, ma è più complicato di così. Il mondo naturale e tutto ciò che di altro simboleggia. Non intendo nulla di metafisico. Intendo qualcosa del tipo ‘il mondo naturale è sempre un simbolo adatto’, come dice Pound; intendo quando egli spiega il modo più diretto e potente di comunicare attraverso l’immagine. Il mondo ‘naturale’ come mezzo per parlare – quando questo è quello che si vuol fare – di molto altro e di se stesso. Del mondo politico, del mondo delle emozioni, dell’essere. Negli ultimi dieci anni questo processo si è perfezionato. Ora scrivo di animali, di prede, e della depredazione e della crudeltà che gli animali soffrono tra le mani dell’uomo. Questo, mi pare, è un crimine che si fa beffe delle nostre pretese metafisiche e umanitarie. Mi pare che tutto il mio lavoro e la mia esperienza sia stata una preparazione per liberare la mia voce per questo compito. Non è la sola scrittura che percorro, ma questa è la sua missione. Da quello che dico, sembrerà che io creda che la poesia debba avere propositi ‘morali’, ma la poesia è un campo molto vasto. Ci sono molti tipi di poesia, molti modi di farla. Alcuni pensano che basti semplicemente scrivere una poesia per compiere un atto morale. Alcuni pensano che poesia e moralità non abbiano nulla a che fare l’una con l’altra. Io non sono assertivo. Per quanto riguarda i poeti nella società australiana, a volte penso che la poesia si sia spostata in luoghi che il pubblico non è incline a seguire. Forse alcuni poeti si sono convinti di essere impotenti. La teoria ha insegnato loro che il linguaggio tradisce e che l’assunzione di autorità – diciamo, la pretesa di essere una guida morale – è profondamente déclassé. Quando il governo australiano fa qualcosa di vergognoso o di delinquente, cosa che accade spesso, non si vedono i grandi poeti – i pochi che potrebbero davvero sfruttare il proprio ruolo per reagire – denigrarlo sulla stampa. Non è sempre stato così. Certo, non è semplice: ci sono alcuni poeti, alcuni davvero bravi, che sono piuttosto attivi – ne stai intervistando uno – ma sono troppo pochi, vengono criticati dagli altri poeti e i giornali non li tengono in grande considerazione. Allo stesso tempo, ci sono molte persone che scrivono poesia. Certamente, la poesia esercita un forte fascino e svolge una funzione significativa. Offre alla gente uno spazio privato e sicuro contro l’azione predatoria della società contemporanea. Ma non sta facendo un grande lavoro, al momento, per portarci fuori dal selvaggio”.
Ha scritto un saggio centrato su ‘Letteratura e eccesso’: ce ne vuole parlare?
“Benché la poesia sia la mia prima vocazione, per me è una specie di grimorio, di libro magico, scrivo anche romanzi, racconti e saggi. Come autore di narrativa sono spesso stato descritto come uno scrittore del liminale, del confine estremo della mente, degli Altri nel nostro essere. Questo è centrale anche nella mia poesia. I saggi del libro cui fa riferimento – ormai di trent’anni fa – sono parte di queste idee che più tardi si sono estese in un romanzo basato sui dipinti di Balthus. Ero affascinato dall’eccesso come spazio politicizzato. Reprimiamo molto di noi stessi aderendo al contratto sociale. Queste parti represse non scompaiono; restano come una sorta di pressione. Ci troviamo in una situazione in cui molte cose che potrebbero aiutarci a spiegare noi stessi non sono più facilmente disponibili. Mi incuriosiva questo. Ora la vedo come una sorta di distrazione calcolata, una sorta di tolleranza repressiva per impedirci di affrontare la reale violenza del nostro essere. Ciò non significa che non sia più interessato al liminale, ma penso a quel lavoro, ancora, come a una preparazione. Il lavoro ora – la vera frontiera della mente – è l’animale”.
Ho letto che vive parte dell’anno in Slovenia, d’altronde, come ha detto, ha pubblicato un romanzo su Balthus. Che relazione ha con la cultura europea? Che specificità riconosce nella letteratura ‘australiana’?
“Il nucleo della cultura australiana – la cultura degli invasori – è anglo-irlandese, indubitabilmente, ma l’Australia è un paese molto europeo. Abbiamo avuto, specialmente dopo la Prima e la Seconda guerra, una vasta immigrazione, da tutta Europa. Le persone che sono venute allora – rifugiati – hanno portato con sé la propria cultura, ma anche il loro trauma, lo shock e la devastazione, e anche questo è diventato parte della mente australiana. Per molto tempo l’Australia avrebbe potuto essere descritta come uno dei posti dove gli imperi del pensiero europeo incontravano il loro Altro; ora, naturalmente, nel mix dobbiamo aggiungere l’Asia e il Medio Oriente, perché l’Australia non ha mai smesso di essere un luogo di rifugio desiderato, inospitale come lo sono gli attuali governi. Così, quando guardo dentro di me, la cultura europea – messa in discussione, destabilizzata, osservata con scetticismo – è una larga parte di ciò che è lì. Se una larga parte della letteratura australiana racconta come vedere e vivere una terra ancora largamente estranea alle culture degli invasori – noi – l’altra faccia della medaglia è la revisione scettica e la rivalutazione delle culture che noi o i nostri immediati antenati hanno portato in Australia. Detto ciò, l’Australia può essere un posto solitario dove scrivere se non si ha una implicita agenda letteraria da seguire – cioè se non si scrive di persone ‘australiane’ o di cosa significhi essere ‘australiani’, o del paesaggio australiano, o della problematica relazione tra indigeni e non indigeni australiani etc., se uno è un ‘internazionalista’, ad esempio, o se la sua prima occupazione sono gli animali non-umani, allora la propria strada non è del tutto liscia e semplice”.
Mi racconti del suo rapporto con Ezra Pound e con il Tempio Malatestiano. Perché Pound è un poeta così importante; perché il Tempio Malatestiano (l’anno scorso, per altro, erano i 600 anni dalla nascita di Sigismondo Pandolfo Malatesta)?
“600 anni? Davvero? Proprio uno strano tipo, il Malatesta, dalla testa calda, dal carattere complicato. Da studente laureato, a Toronto, nel 1975 per un corso sul poema nel XX secolo, accettai di scrivere un testo sul Cantos V. Non avevo idea in che cosa mi stessi gettando. Ho dovuto imparare tanto solo per iniziare a capire il poema. Una intera educazione, in quattro pagine! Ma ero affascinato. Ho cambiato il soggetto della mia tesi, da William Blake a uno studio approfondito sui primi sedici Cantos di Pound,e naturalmente al centro di quei Cantos, il campo di forza intorno al quale gravitano, c’è il Tempio, che sorge dal quattro grandi ‘Malatesta Cantos’. Feci un pellegrinaggio a Rimini, nel 1976, e trascorsi un paio di giorni nell’edificio, assorbendo tutto ciò che potevo, imparando così tanto, sul marmo, sull’arte, sul Rinascimento delle origini. Per me, a quel tempo, il Tempio era principalmente una metafora del grande progetto dei Cantos. La ri-creazione di una chiesa papale in un tempio pagano è la monumentale asserzione di Pound, make it new. A poco a poco diventa più personale il modo in cui Malatesta orienta il Tempio su se stesso e Isotta; il modo della sua sconsacrazione assume un carattere esistenziale. Ma è attraverso la poesia, e la poesia dei ‘Malatesta Cantos’ è notevole, che il Tempio è entrato in me profondamente. Forse a causa dell’australiano che è in me. Nel profondo della mente post-coloniale c’è la tendenza a prendere la cultura del ‘maestro’ per ri-pensarla, ri-situarla, ri-leggerla, tentando di identificare e correggere e controbilanciare la cecità e gli errori e le distorsioni dell’antica cultura degli ‘invasori’. Ma probabilmente c’è anche qualcos’altro, come se nel concetto del Tempio ri-proposto esistesse una qualche equazione, un algoritmo, che possa essere usato per altri tipi di transizione. Quando ci trasferimmo nella piccola fattoria dove viviamo, con i nostri animali salvati, c’era un vecchio capanno, spalancato, in ferro zincato, al limite del paddock. Una mattina, me ne stavo in piedi, all’aperto, e capii che quella luce era perfetta per una sala di scrittura. Ho trovato la persona giusta per costruirla. Ha lasciato la vecchia struttura così com’era, l’ha foderata e isolata all’interno. Ora è il luogo in cui lavoro. È pieno dei grandi libri del mondo, ma è circondato dall’erba e dal bush australiano – io lo chiamo la mia biblioteca d’erba – e le pecore possono entrare e riposare tra i libri, come se quello fosse un luogo simbolico dove i libri e la natura e gli animali possono convivere. Ho costruito io le biblioteche. Una delle prime cose che ho messo su di esse è una piccola incisione ottocentesca del quadro di Piero della Francesca nel Tempio, con Sigismondo Malatesta in ginocchio davanti a San Sigismondo. Quanto a Pound. Devo dire che è una figura problematica. C’è così tanto intorno alle sua visione politica che non ho mai neppure tentato di accettarla. Ma non è stata certo la prima grande intelligenza ad aver fallito durante gli immensi orrori e le contraddizioni del XX secolo. La sua grandezza è poetica, non certo come pensatore politico. La sua comprensione del funzionamento dell’immagine, la sua percezione del metodo ideogrammatico, la sua comprensione del ritmo (il ritmo ‘assoluto’, i ritmi eolici) e dell’armonia (quella straordinaria percezione, nel libro su Antheil, che ‘due suoni non sono disarmonici se c’è il giusto intervallo tra loro’), il suo senso della logopoeia (‘la danza dell’intelletto tra le parole’) e soprattutto l’insistenza sull’‘iniezione esotica’ da altre culture: queste sono leggi fondamentali della poesia moderna”.
Ora, in quale lavoro poetico è impegnato?
“Mia moglie e io viviamo con animali non umani: qualche pecora recuperata dall’industria agricola, alcune anatre selvatiche, molti uccelli e altri animali nativi. La poesia va e viene – posso stare diversi mesi senza scrivere un verso, e altre volte la poesia mi riempie la mente – ma ho una grande quantità di altri scritti da comporre e non le faccio pressioni. Se ho un progetto poetico è quello di addentrarmi ulteriormente e più profondamente nel posto in cui sono, e imparare a raccontarlo e a difenderlo nel modo più efficace. Nessun posto è isolato. Ogni luogo è politico. Ogni luogo è sotto minaccia”.
*
Leggendo alle pecore
È un freddo pomeriggio al principio dell’inverno e mia moglie
sta leggendo alle pecore il primo documento di seminario dipartimentale
dalla sua tesi di dottorato, mentre a sua insaputa
guardo dalla finestra della cucina. Ha una
giacca invernale, pesante, e le pecore
nei loro spessi cappotti
masticano i gambi già straziati della menta rampicante
e cosa resta dell’erba autunnale intorno al letto di patate.
La tesi è sul dolore degli animali e lei sta leggendo
del lutto dei polli per i loro compagni,
del dolore dei vitelli per le loro madri, delle madri per i loro polpacci rubati,
di enormi elefanti che in Kenya girano
sopra le ossa dei loro morti,
accarezzandoli con la punta delle loro grandi zanne,
sta leggendo di uccelli
che posano rami sui corpi dei loro compagni,
e di come, sapendo che non sapevano, il Signore
di certe persone o un altro – forse era il nostro –
abbia mandato i corvi a insegnare loro la dovuta
riverenza e i riti per i morti,
sta leggendo delle formiche che portano via
con tanta cura i corpi dei loro compagni,
sta leggendo dei cani
che muoiono di fame dopo la morte dei loro cari,
dei delfini che sollevano sulla superficie delle acque i compagni morti,
delle madri macachi che portano con sé il corpo dei loro bambini
per mesi dopo che il loro ultimo respiro li ha lasciati.
Di tanto in tanto, quando si ferma, persa
nell’ampiezza del suo dolore, forse,
o semplicemente prendendo respiro,
una o l’altra delle due pecore le va incontro
nel triste crepuscolo di maggio
e con la sommità del capo, dove
le corna non sono state bruciate da tanto tempo,
le danno un colpo
come per confortarla,
o forse solo per chiederle di girare pagina.
La luce si fa fitta e si alza il vento. Le anatre
si sistemano su di lei e le pecore
riposano ai suoi piedi. La notte
si muta in giorno, poi notte, poi ancora giorno.
La pioggia va e viene. Il seminario passa. La primavera
diventa principio d’estate, scorre verso l’autunno.
Le pecore si alzano, si stirano, pascolano, ritornano,
le foglie si accumulano attorno a loro e vengono spazzate
via dai venti di un altro inverno.
I tuoi capelli
diventano grigi – guarda! – e un milione di linee
si dilatano sul dorso delle tue mani.
Trovi questa poesia.
Lei sta ancora leggendo.
David Brooks
*
When your poetic vocation was born? Why? What were (and are) your cultural references, your teachers?
I began to be drawn to poetry in early high school. By my secord or third year I was reading paperbacks from the Penguin Modern European Poets series – Holub, Roscewicz, Herbert – drawn to their bleak post-war spareness. I spent the last year of high school in the U.S. on an exchange scholarship and encountered the work of Ginsberg and Ferlinghetti there – actually heard them read, one snowy night in Cleveland. The first sense of a vocation, however, I think came when I was introduced, at university, to the poetry of Galway Kinnell (Body Rags), a deep and immediate connection. For years I didn’t think I’d written a real poem unless it sounded like him. Then, when I went to do my doctorate in Canada, there was the discovery of Ezra Pound and the Cantos (the poems of his Cathay were even more important). While in Canada I became acquainted with the poetry of Milosz, even translated some of him with him. When I returned to Australia I published my first collection of poetry, but Milosz had had a strange impact: it was over twenty years before I published the second, and that was partly because Milosz had challenged me so much, to situate my lyrical vision historically, politically and metaphysically. There has always been, too, a deep attraction to classical Chinese poetry: a kind of sympathy of temperament.
There have also been Australian connections. The young poets of Canberra, in the early 1970s, had some remarkable mentors: A.D. Hope, Judith Wright, David Campbell, Rosemary Dobson, R.F. Brissenden. And later, for me, there was the work of Bruce Beaver and J.S. Harry. Some of these were my teachers at university, some I later edited, some became close friends. No doubt each has had some influence upon me.
My cultural references, accordingly, are rather complex. I have edited, written about and taught Australian Literature for decades. It’s my core cultural reference (and antagonist). But I’ve also lived in North America, Greece and Yugoslavia (as a child), France and Slovenia. All of these places have left their marks.
What are the dominant themes of your poetry? Do you think poetry should have a ‘moral’ role? What role does the poet play in Australian society?
I’d have to say ‘the natural world’, but it’s more complicated than that. The natural world and something else that it symbolises. I don’t mean anything metaphysical. I mean something along the lines of Pound’s ‘the natural world is always the adequate symbol’, and of the way he speaks of the most direct and powerful communication being through the image. The ‘natural’ world as a means of speaking – when this is what you want to do – about much more and other than itself. About the political world, the emotional world, existential being.
For the last ten years or so this has become more focussed. I am now more intent upon writing about animals, and the predation, depredation and cruelty they experience at human hands. This, it seems to me, is a crime that makes a mockery of our metaphysical and humanitarian pretensions. It’s come to seem that all my prior work and experience has been to prepare and free my voice for this. It is not the only writing I do, but it is its mission.
That must sound as if I believe poetry should have a ‘moral’ purpose, but poetry is a vast field. There are many different kinds of poetry, many different things they do. Some people think that the mere writing of poetry is a moral act. Some think that poetry and morality have little or nothing to do with one another. I am not going to be prescriptive.
As to poets in Australian society, sometimes I think poetry has strayed a little into places that the public is not much inclined to follow. Perhaps some poets become too convinced of their own impotence. Theory has told them that language betrays and that the assumption of authority – let’s say the provision of moral leadership – is deeply déclassé. When the Australian government does something shameful or delinquent, as it frequently does, one does not see the major poets – the few who could actually use their profile to do so – decrying it in the daily news. That was not always the case. Of course it’s not that simple: there are a few poets, some of them very fine poets, who are very active indeed – you’ve recently interviewed one – but they are far too few and they tend to receive criticism for it from other poets, and the daily news does not take much notice.
At the same time there are large numbers of people writing poetry. Clearly it still has a strong appeal, and is performing some significant function. To give people a safe and private space, perhaps, against the predations of contemporary society. But it is not doing a great job, at the moment, in leading us out of the wilderness.
I read that you wrote a critical text on ‘Literature and excess’. What is the theme of the essay?
Although poetry is my first calling, and acts as a kind of grimoire for the rest, I also write novels, short fiction and essays. As an author of fiction I have often been described as a writer of the liminal, of the border-lands of the mind, of the Others of our being. This is in fact central to my poetry also. The essays of the book you refer to – almost thirty years ago now – were a part of this, and later this concern extended into a novel based upon the paintings of Balthus. I was intrigued by excess as a politicised space. We repress a lot of ourselves, when we accede to the social contract. Those repressed parts do not go away; they remain as a pressure. We find ourselves in a situation where much of what might help to explain ourselves is not very readily available to us. At that point I was very curious about this. Now I have come to see it almost as if it were a kind of calculated distraction, a sort of repressive tolerance to keep us from addressing the real violence of our being. That is not to say that I am no longer interested in the liminal, but I think of that earlier work, again, as a kind of preparation. The work now – the mind’s real frontier – is the animal.
I read that you live a part of each year in Slovenia, and as you say you have written about Balthus. What relationship do you have with European culture? What specificity does (if it has) the ‘Australian’ literature?
The core of Australian culture – invader culture – is Anglo-Irish, unquestionably, but Australia is also a very European country. We have had, especially after the First and Second World Wars, extensive immigration, from all over Europe. The people who came then – refugees – brought with them their cultures, but also their trauma and shock and devastation, and these have also become a part of the Australian mind. For a long time Australia could have been described as one of the places where the Empires of European thought met their Other; and now, of course, into the mix we must add Asia and the Middle East, for Australia has never ceased to be a desired place of refuge, inhospitable as its current governments may be. So that, when I look inside myself, European culture – questioned, destabilised, seen sceptically – is a large part of what is there. If a large part of Australian literature concerns how to see and live in a land that those – we – of the invader cultures are still largely strangers in, the other side of that coin is the sceptical revision and reassessment of the cultures we or our immediate ancestors have brought to Australia.
All that said, Australia can be a lonely place to write if one does not follow a kind of implicit literary agenda – that is, if one does not write about ‘Australian’ people, or what it means to be ‘Australian’, or about the Australian landscape, or the troubled relationship between indigenous and non-indigenous Australians, etc. If one is an ‘internationalist’, for example, or if one’s first concern is non-human animals, then one’s way is not always so smooth or so welcoming.
Now, what poetic work are you working on?
My wife and I live with non-human animals: some sheep rescued from industrial farming, some wild wood ducks, many birds and other native animals. The poetry comes and goes – sometimes I can go several months without writing a line of poetry, and at other times it fills the mind – but I have a great deal of other writing to do and I apply no pressure upon it. If I have a project, poetically, it is just to settle further and more deeply into the place I am, and to learn to explain and defend it more effectively. No place is isolated. Every place is political. Every place is under threat.
Please tell me about your relationship with Ezra Pound and the Malatesta Temple. Why Pound is a poet so important; why the Malatesta Temple (this year is 600 years since the birth of Sigismondo Pandolfo Malatesta)?
600 years? Really? Such a strange, hot-headed, complex character. As a graduate student in Toronto in 1975, for a course in the long poem in the twentieth century, I agreed to write a seminar paper on Canto V. I had no idea what I was getting into. I had to learn so much just to begin to understand the poem. A whole education, in four pages! But I was fascinated. I changed my thesis subject from William Blake to a close study of Pound’s first sixteen cantos, and of course at the centre of those cantos, the force-field about which they turn, is the Tempio, rising from the four great Malatesta cantos. I made a pilgrimage to Rimini in 1976 and spent a couple of days in the building, absorbing everything I could, learning so much, about marble, about art, about the early renaissance. For me at that time, the Tempio was principally a metaphor for the huge project of the Cantos themselves. The re-creation of a Papal church into a pagan temple was a monumental instance of Pound’s ‘make it new’. Gradually it became more personal, the way Malatesta centred the Tempio about himself and Isotta; the way its deconsecration gave it almost an existential character. But, through the poetry, and some the poetry in the Malatesta cantos is remarkable, I think the Tempio had entered me more deeply. Maybe it was the Australian in me emerging,. Deep in the post-colonial mind is a tendency to take things from the ‘master’ culture and re-think them, re-situate them, re-write them, trying to identify and correct and counterbalance the blindnesses and errors and distortions of the older, ‘invader’ culture.
Perhaps there is also something else, as if in the concept of the re-purposed Tempio there where an equation of some sort, an algorhythm, that can be used for other kinds of transaction. When we moved onto the little farm where we now live with our rescued animals, there was an old shed, open-ended, made of galvanised iron, on the edge of the paddock. I stood in the open end one morning and realised that the light there was perfect for a writing-room. I found the right person to build it. She left the old structure just as it was, but lined and secured and insulated it inside. It is now where I work. It is full of the great books of the world, but it is surrounded by grass and the Australian bush – I call it my grass library – and the sheep are able to enter and rest amongst the books, as if somehow it were a symbolic place where the books and the bush and animals might come together. I built the bookshelves myself. One of the first things I placed on them was a small nineteenth-century engraving of Piero della Francesca’s painting, from the Tempio, of Sigismundo Malatesta kneeling before the figure of St Sigismund.
Pound himself, I have to say, is a troublesome figure. There is so much about his political views that I have never even tried to accept. But then he would not be the first great mind to have broken down under the immense horrors and contradictions of the twentieth century. It is as a poetician that his greatness lies, not as a political thinker. His understanding of the operation of the image, his perception of the idiogrammic method, his understanding of rhythm (‘absolute’ rhythm, the Aeolic rhythms) and harmony (that extraordinary perception, in his book on Antheil, that ‘no two sounds are inharmonious provided the right interval be placed between them’), his sense of logopoeia (‘the dance of the intellect amongst words’) and above all his insistence on ‘exotic injection’ from other cultures: these establish some of the fundamental laws of modern poetry.