12 Giugno 2020

“È per la bellezza che mettiamo a rischio noi stessi”. Siamo esseri scagliati nel mondo da chissà quali lontananze: sul folgorante romanzo di Ocean Vuong

È folgorante, Brevemente risplendiamo sulla terra, On Earth We’re Briefly Gorgeous (edito in Italia da La Nave di Teseo), esordio narrativo di Ocean Vuong, pseudonimo di Vương Quốc Vinh. Nato in Vietnam nel 1988 e americano dal 1990, oggi vive a Northampton, nel Massachussets. La sua raccolta poetica Cielo notturno con fori d’uscita (Night Sky with Exit Wounds, 2016) è stata una rivelazione. Lui pubblica, tra l’altro, sul New Yorker e Harper’s.

Il romanzo è una lettera alla madre, che lei in realtà non leggerà mai: perché non sa leggere (“Ciao Ma’, ti scrivo per avvicinarmi a te, anche se ogni parola che butto giù è una parola in più che ci allontana”) e perché lei muore mentre il romanzo sta uscendo. Ma più che un romanzo, Brevemente risplendiamo sulla terra è un lungo inno lirico. Racconta la storia di nonna Lan e nonno Paul, il ragazzo americano “con gli occhi da cerbiatto”, di sua madre Rose e la zia Mai. Racconta con nostalgia e dolorante stupore di sé bambino – in casa lo chiamano Little Dog per scongiurare gli spiriti –, fino alla prima giovinezza, gli anni della scuola e la sopravvivenza difficile negli Stati Uniti. Racconta la passione per la lettura e vocazione alla scrittura, il primo lavoro, il primo amore e la scoperta della propria queerness.

Diario, confessione, romanzo storico – in sottofondo si sentono costantemente gli spari e le esplosioni di napalm della guerra in Vietnam, da cui nonna e madre fuggono ma che non riescono a dimenticare –, questa è anche la storia di una formazione. Vuong tesse uno struggente autoritratto, mette a nudo, offre e mescola corpo e interiorità, lo scorrere del sangue nelle vene confuso con il rosso del tramonto americano e le foglie degli aceri.

Alla fine, come nelle favole, l’eroe che si affida ciecamente alla notte, dalla notte uscirà ricompensato.

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Il doppio centro del romanzo è la vicenda personale dell’autore e il desiderio, affilato come una lama, di fissarne gli ormeggi in una scrittura densa, straziante di poesia. Questa si colloca nel duplice alveo del Vietnam, paese distrutto e lasciato, le origini, la radice – “Quando finisce una guerra? Quando potrò pronunciare il tuo nome e fare in modo che combaci solo con il tuo nome e non con tutto ciò che ti sei lasciata alle spalle?” –, e insieme degli Stati Uniti, paese nuovo della possibilità di sopravvivere, straniero e spesso ostile per una famiglia di tre donne e un bambino immigrati vietnamiti, dono di vita ma anche crudeltà: “Che cos’è un paese se non una frase senza confini, una vita?”.

Ma in fondo siamo tutti, sottintende l’autore, sradicati senza terra, esseri scagliati nel mondo da chissà quali lontananze. E così, da personale, la sua storia diventa storia universale della ricerca di sé: “Può essere che scrivendo a te qui, così, io stia scrivendo a tutti, perché come ci può essere uno spazio sicuro, se il nome di un bambino può proteggerlo e ridurlo a essere un animale allo stesso tempo?”.

Tra questi due poli e due continenti s’incunea e nasce la vocazione alla scrittura, al racconto, la volontà di appropriarsi di una lingua in cui dipanare la fabula della vita americana, della seconda nascita: “Se siamo fortunati, la fine di una frase è dove possiamo cominciare. Se siamo fortunati, qualcosa viene trasmesso in avanti, un altro alfabeto scritto in sangue, muscolo e neuroni…”.

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Il ricordo esige una lingua in cui raccontare il cammino verso l’affermazione di sé e la salvezza, il limite da superare di là dallo squallore del centro estetico in cui la madre lavora tutto il giorno, i relitti del passato vietnamita e le umiliazioni personali, il macigno da masticare nella sopraffazione dei compagni – “È stato allora che ho visto un lampo (…), la scintilla in realtà veniva da dentro la mia testa. Qualcuno mi aveva spiaccicato la faccia contro il vetro”.

All’ordito di una vita, l’autore intreccia la consapevolezza e l’inizio della ribellione interiore, muta ma inesorabile, con immagini stupende che ci feriscono e legano: “Ho iniziato a fissarmi i piedi, le scarpe che mi avevi comprato, quelle con le lucette rosse che lampeggiavano quando camminavo. (…) Prima ho scalciato piano, poi sempre più veloce. Le scarpette da ginnastica facevano scoppiare mute vampe: le ambulanze più piccole de mondo, dirette da nessuna parte”.

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Quella di Vuong è prosa lirica grandiosa, illuminata costantemente di poesia come da fuochi dentro le parole, in cui niente è dato per scontato: “Ti chiedi mai se la tristezza e la felicità possano essere combinate fino a creare una sensazione viola profondo, non buono, non cattivo, ma memorabile e degno di nota solo perché così non sei costretta a stare solo da una parte o dall’altra?”.

L’istante perfora spesso la storia nei racconti di nonna Lan, fuggita dal primo marito che è stata costretta a sposare in un matrimonio combinato, in un paese in guerra dove per miracolo scampa la morte e i fucili militari, con una bambina in braccio – sua madre, il visetto piccolo come una pesca affondata tra le sue scapole: “quella volta in cui ha raccontato della tua nascita, dei soldati bianchi e americani stanziati su un cacciatorpediniere nella Baia di ha Long. Come Lan (…) aveva addosso il suo ao dai viola, i lembi del vestito con lo spacco fluttuanti dietro di lei sotto le luci al neon del bar, intanto che avanzava. (…) Come erano stati il suo corpo, quel vestito viola, a tenere in vita una giovane donna che viveva in una città in tempo di guerra per la prima volta da sola: Lan continuava a parlare … (…) nella sua storia avevo smarrito me stesso, coscienziosamente (…). Ero accanto a lei mentre il suo vestito viola ondeggiava nel bar fumoso, tra i vetri dei bicchieri che tintinnavano sopra l’odore dell’olio per i motori e dei sigari, della vodka e della polvere da sparo sulle uniformi dei soldati”.

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Nonna Lan che – pur con la mente sconnessa, i pensieri confusi nella follia – gli confida di aver fatto la prostituta per i soldati americani, per provvedere a sé e alla sua bambina dopo la fuga. Lo racconta “con orgoglio spinato” e ricostruisce per lui il Vietnam dei suoi avi: “le tue parole erano pietre disposte una alla volta per formare un lunghissimo muro”. Nonna Lan che si dà un nome profumato, Lan – ‘orchidea’ – prima di andare incontro al proprio destino, spaccato a metà sul crinale della guerra, la morte tutto intorno: “A circondare il giovane soldato, la donna e la bambina è l’ostinazione verdeggiante del paesaggio, della terra. Ma quale terra? Quale confine che veniva attraversato e cancellato, diviso e riorganizzato? A ventotto anni, aveva dato alla luce una bambina che un giorno avrebbe avvolto in un pezzo di cielo rubato da una giornata luminosa”. Uno scialle blu in cui ha avvolto la bambina, l’unica sua proprietà.

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Questo l’affresco corale del passato, “il lembo fragile della storia brutale”. Più vicino, l’altro affresco contemporaneo, quello americano: “È passato da poco il tramonto e nell’aria si sente il profumo dell’erba di bisonte e dei lillà spuntati tardi che spumeggiano di bianco e magenta lungo i giardini curati dei vicini”.

In mezzo la scrittura, il cammino, la vita che prende slancio: “Ma’, avrei voglia di dirti tante di quelle cose. Un tempo ero sufficientemente ingenuo da pensare che la conoscenza avrebbe chiarito le cose, m alcune di loro sono così velate da strati di sintassi e di semantica, da ore e da giorni, da nomi dimenticati, salvati e spellati, che la consapevolezza di una ferita non fa nulla per rivelarla. (…) Ma il mio dubbio è ovunque…”.

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Destinataria e protagonista, la figura della madre domina il romanzo, ristruttura con la sua forza e resilienza le loro esistenze, riconfigura passato e presente. Anche lei sa raccontare, far volteggiare la fantasia davanti agli occhi del figlio. A un certo punto i due vanno sono in aereo, diretti in California: “stavi dando una seconda occasione a quell’uomo, a mio padre, anche se avevi il naso ancora rovinato per tutti i suoi schiaffi”. Un vuoto d’aria fa sobbalzare il bambino sul sedile, la cintura di sicurezza lo strattona: “Tu mi hai avvolto un braccio attorno alle spalle, ti sei accostata a me e il tuo peso ha assorbito il sobbalzare dell’aereo. Poi hai puntato il dito verso i cumuli di nuvole fuori dal finestrino e hai detto, ‘Quando saliamo così in alto le nuvole si trasformano in massi, in rocce durissime, ecco perché ti senti così’. Le tue labbra brucavano sul mio orecchio, la tua voce era calma, e io ho studiato le montagne gigantesche color granito che fendevano il cielo all’orizzonte. Per forza l’aereo tremava. Ci stavamo spostando tra le rocce, il nostro volo era la perseveranza sovrannaturale del paesaggio. (…) Con le leggi dell’universo fatte nuove, mi sono risistemato sul sedile a guardar fuori mentre ci aprivamo un varco tra una montagna dopo l’altra”.

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L’elegia ha qui la voce materna, il colore di un anello di plastica da pochi soldi al posto della cena che sempre lei, Rose, non è riuscita a comprare perché in inglese non sa le parole. I ruoli si si sfaldano, l’identità s’inverte e nell’amore si ricompone, la differenza diventa coesione nuova: “La prima volta che ho cercato d’insegnarti a leggere come aveva fatto la maestra Callahan con me, posando le mie labbra sul tuo orecchio e la mia mano sulla tua, le parole si spostavano sotto le ombre che formavano io e te. Ma quel gesto (un figlio che insegna a una madre), rovesciava le nostre gerarchie e con le nostre gerarchie rovesciava le nostre identità che in America erano già tenui e impastoiate”.

Lei non imparerà. Inizia piuttosto a disegnare – la vista, afferma, è l’organo di Dio – e affolla la casa di disegni, quelli che i bambini piccoli ricoprono di colore, li appende per la casa, che “iniziava a somigliare all’aula di una classe elementare”. Perché quel che vuole è riempire i vuoti, colmare l’opacità: “‘Hai mai creato una scena’, mi hai chiesto mentre riempivi una casa (…), ‘e ti ci sei infilato dentro? Sei mai rimasto a osservarti di spalle, finché non ti sei visto sparire sempre di più in quel paesaggio, allontanandoti da te stesso?’ Come facevo a spiegarti che stavo descrivendo la scrittura? Come facevo a dirti che dopotutto io e te siamo vicini, che siamo le ombre delle nostre mani su due pagine diverse, pronte a confondersi?”.

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“Il dubbio è ovunque”, in questo romanzo. E ovunque c’è, costante, la linea di contrappunto: l’essere fuggevole dell’umano, la sua nostalgia di bellezza malgrado la morte e la sofferenza – “è per la bellezza che mettiamo a rischio noi stessi”. C’è il tentativo sempre identico in ogni poeta, da Saffo a noi, di rendere un poco più stabile la precarietà della nostra vita, un poco più duraturo quel nostro essere fuggevole: “sto provando a credere nel paradiso… (…) In un mondo innumerevole come il nostro, lo sguardo è un gesto singolare: guardare qualcosa significa riempire tutta la propria vita con quella cosa, anche solo brevemente”.

Tutto per Vuong è circolare, come il tempo, come il vento. O il desiderio: “Dicono che se vuoi qualcosa così tanto, alla fine trasformerai quella cosa in un dio”. Ma desiderare tanto qualcosa – o qualcuno – significa anche trasformarla in una preda, e noi stessi in cacciatori d’istanti: “Penso a quella volta che io e Trev siamo saliti sul tetto del capanno degli attrezzi, a osservare il sole che affondava. Non ero rimasto tanto sorpreso dal suo effetto né da come, in pochi minuti che collassavano su se stessi, il sole cambiasse il modo in cui si vedono le cose o ci vediamo noi, quanto dalla possibilità che io potessi vederlo, quel sole. Perché il tramonto, come la sopravvivenza, esiste solo nel momento in cui sta per sparire”.

Così il silenzio e l’oblio esistono per essere contraddetti. E disintegrati da romanzi come questo.

Paola Tonussi

*In copertina: Ocean Vuong (l’immagine è tratta da qui)

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