Per capirne la regalità, bisogna partire dalla fine. La poetessa morì alla fine di novembre, era il 2010; in aprile aveva compiuto 73 anni; a presiedere la Federazione Russa c’era Dmitrij Medvedev, che elargì elogi funebri – per i russi, la poesia è una questione identitaria, è il pilastro. Il “New York Times” la esaltò come Bold Voice in Russian Poetry; sul “Guardian” il ‘coccodrillo’ mostrava fauci politiche: Bella Achmadulina era definita poet and liberal dissident. L’attacco del pezzo – puro menù british – è folgorante:
“Per più di quarant’anni, Bella Achmadulina, poetessa, è stata la regale, santificata presenza della scena letteraria moscovita. La sua singolarità non aveva eguali: nessuno diceva male di lei, qualunque fosse la sua posizione nelle gerarchie, ufficiali o meno. Possedeva un’aura, un carisma, verso cui tutti erano deferenti”.
L’asserzione corrisponde al vero. Precocissima, dotata d’ineguagliabile bellezza, l’Achmadulina esordisce nel 1962 con una raccolta, La corda; fece scalpore. In molti videro in lei l’erede – che rimbomba perfino tra i tratturi del cognome – di Anna Achmatova; lei, piuttosto, si sentiva la figlia araldica di Boris Pasternak. In vita, la sua fama non subì scricchiolii: nominata un paio di volte al Nobel, ottenne i massimi premi conferiti dal suo paese. Energumena prestanza dello Stato stigmatizzata, va da sé, dagli inglesi (i quali, per riguardo delle forme, sono assai più rigidi…): “Verso la fine della sua vita, più imperatrice che regina, fu ufficialmente celebrata e ricoperta di onori”.
In sostanza: fu un mito. Insieme a Evgenij Evtušenko – che, incidentalmente, sposò – e ad Andrej Voznesenskij fu l’eroina della nouvelle vague della poesia russa. Insieme, i tre riempivano – letteralmente – gli stadi, erano famosi come rockstar. Bella, talentuosa, capace nei versi di screanzata tenerezza – “Io andavo, le strettoie dei corridoi/ mi attiravano nelle profondità/ di altrui dolori, nozze, assurdità,/ nel pianto dei gattini, nel balbettio di labbra infantili” – la Achmadulina faceva la parte di Anita Pallenberg e di Jane Birkin, con un sovrappiù di lirismo; fu un ineguagliabile incrocio tra Marina Cvetaeva e Patti Smith.
È vero: prese posizioni urticanti, spesso aliene ai rigori dell’ufficiale letterario sovietico. Ragazzina, appoggiò senza remore Boris Pasternak, rifiutandosi di allinearsi alla retorica delle iene quando scoppiò il ‘caso Pasternak’. Il suo ciclo di versi e prose Ricordi di Boris Pasternak ha la spavalderia della giovinezza, la sapienza di chi sa i meandri della riconoscenza. Il testo, concluso nel 1962, uscì quasi in diretta, pur in parte, su “L’Europa Letteraria”. Nella pagina attigua del bimestrale, Paolo Chiarini, germanista, traduttore di Brecht, onorava Hermann Hesse, morto quell’anno, in agosto, a Montagnola.
La scena si svolge a Peredelkino, nella dimora di campagna, imposta, di Pasternak: la ragazza non osa fissarlo in volto, si accorge delle sue mani, “fiamme bianchissime”. Si direbbero mani d’angelo, mani serafine, non fosse che il poeta indossa “un ruvido e lindo abito da cacciatore”: sono mani, le sue, che possono sanare e uccidere, suturare la lebbra e squartare una bestia. Il poemetto della Achmadulina si intreccia a una Lettera a Bella, indirizzata alla poetessa dal suo traduttore, Angelo Maria Ripellino. Come estasiato dalla concretezza umana di questa scrittura – da re taumaturgo –, Ripellino si rivolge alla Achmadulina così:
“Cara Bella, esiste ancora la dolcezza? Oppure la scrittura dei poeti è ormai solo una tavola di aspri congegni manovrati dalla musa Entropia? I tuoi versi provano che la dolcezza è ancora viva, e il calore umano, la soavità, la meraviglia, le piccole scoperte d’ogni giorno, i prodigi della natura possono essere ancora incentivo alla poesia”.
Era alle porte il Gruppo 63 – che avrebbe accolto in seno diverse poesie di Ripellino, tra l’altro –, la poesia in vitro, la lirica impegnata, la disgregazione del verso in verbosità cinematica, l’alchimia poetica che non ha nulla della lallazione profetica, è pura ingegneria catodica. Ripellino aveva onorato la Achmadulina tra i lari dei Nuovi poeti sovietici (Einaudi, 1962).
Ma i miti, si sa, spesso sono imposture, tengono la postura verso l’alba oblio. Per un po’, Bella Achmadulina sedusse l’editoria nostra: nel 1971 esce per Guanda, a cura di Serena Vitale, Tenerezze; in copertina spicca il suo viso, da cerbiatto che all’occorrenza sa farsi carnivoro. Nel 1993, per la Fondazione Piazzolla, Donata De Bartolomeo – da cui abbiamo tratto le traduzioni in calce – cura una antologia di Poesie scelte (1956-1984), inserendo Bella Achmadulina nel lignaggio che le è proprio: “Le radici della sua poesia affondano nel migliore humus della grande tradizione russa: l’Achmatova, Marina Cvetaeva, Mandel’štam, Pasternak sono i referenti più chiaramente individuabili, ma su tutti si profila la figura di Puškin”. Ancora, si indulge sulla leggenda, ci si abbevera al mito: “La folgorante bellezza, le tumultuose vicende amorose, le coraggiose prese di posizione in favore di Sacharov e del mondo del dissenso, nonché l’innegabile talento hanno contribuito, nel corso degli anni, a creare intorno alla poetessa un mito che resiste ancora ai giorni, nonostante l’Achmadulina si sia da tempo ritirata in una dacia lontana da Mosca, in rigoroso ‘isolamento’”.
Che alla fama, impressionante, immacolata, faccia seguito l’alterigia della solitudine conferma l’inarginabile il genio della Achmadulina. Nel 2008 l’editore Interlinea pubblicò come Lo giuro una ulteriore antologia di poesie della Achmadulina – il libro è fuori commercio, da allora non è stato pubblicato nulla.
Bella Achmadulina proveniva da una famiglia ben incapsulata nel sistema sovietico: il padre era alto membro del partito, la madre, assunta nei gangli del Kgb, era la nipote del rivoluzionario bolscevico Aleksandr Stopani. Vantava ascendenze tartare e italiane – il bisnonno materno faceva di cognome Stoppani. Collezionò quattro matrimoni, l’ultimo, nel 1974, con lo scenografo teatrale Boris Messerer.
Anche Anna Achmatova, nel 1936, aveva scritto una poesia su Boris Pasternak, un dono tra pari, però, in cui spicca questa quartina:
“ha avuto in premio un’eterna fanciullezza,
la perspicacia magnanima degli astri;
la terra tutta è stata suo appannaggio,
ed egli l’ha divisa con tutti”.
I poeti hanno discendenze strane, che non dipendono dagli evi né dagli avi, dal cronometro della cronologia: ad alcuni stringono le ginocchia, altri li sfidano, in serrata, viso dentro viso. Anche per Bella Achmadulina – come per la Achmatova, come per la Cvetaeva prima di loro – Boris Pasternak dominava sulle stelle e sugli alberi, “se la intendeva con l’abisso”. Forse era un cacciatore di astri.
Nel 1998, sulla rivista “Poesia” (Anno XI, Luglio/Agosto, n.119), Fabiola Giancotti pubblica un bel dialogo con Bella Achmadulina, che, tra l’altro, dice:
“La responsabilità, o l ‘assenza di responsabilità, di fronte a un foglio è un senso che è nato in me tanto tempo fa, anche nelle mie primissime poesie. In una, non ricordo precisamente quale, scrivevo qualcosa del genere: sono timida di fronte a un foglio bianco così come lo è un pellegrino davanti alla soglia di un tempio, così come lo è una vergine quando abbassa gli occhi di fronte all’amante. È un modo di dire che la carta può accogliere tutto. La limpidezza del foglio è sempre stata per me il simbolo della purezza dell’anima”.
La copertina del servizio – “Nel fitto dei secoli” – vede bella di fianco a Nadežda, la vedova di Osip Mandel’štam. A dire che la limpidezza si ottiene tramite la grazia, tramite la durezza – che resiste la rosa come resiste la pietra.
Anche lei, comunque, finì per abitare a Peredelkino, nel luogo dove aveva conosciuto Pasternak, ergastolana di boschi. “Ho vissuto nel mondo ed ho cercato di essere migliore”, disse – e che altro si può dire? Il resto, è la transumanza nel numinoso.
***
Ricordi di Boris Pasternak
Comincerò da lontano, non da qui ma da là
comincerò dalla fine ma è anche l’inizio.
Il mondo era come il mondo. E questo significava
tutto quello che in questo mondo desiderate.
In quel luogo c’era un bosco, come un orto,
così piccolo e tuttavia ampio.
Là, per un capriccio di errori infantili,
tutto era così e tutto al contrario.
Su una piccola distesa di silenzio
c’era una casa come una casa. E questo significava
che in essa una donna dondolava il capo
e le lampade venivano accese presto.
Là il lavoro era leggero come un compito di scrittura
e qualcuno – noi stessi ancora non lo sapevamo –
da solo faceva perdonare, a furia di preghiere innanzi ai cieli,
il nostro peccato di un imperfetto intelletto.
Di quell’equilibrio tra il bene e il male
egli era colpevole. E la terra volava
sconsideratamente, come voleva,
mentre la candela ardeva sul tavolo.
Si perdonavano e l’ignorante e il bugiardo
– qual è la differenza? – davanti a tutto il mondo
poiché, avendoci permesso di non occuparci di ciò,
egli espiava la colpa universale.
Quando il vuoto da lui lasciato
apparve davanti al mondo, verso oriente,
con una scossa la natura spossata
spostò la gravità dei nostri corpi.
Riuniti in un povero cerchio,
l’immensità ci colse di sorpresa
e dallo squallore delle nostre indegnità
ormai nessuno si riscattava.
In quella casa andavano in molti. E quei
due ragazzini con le camicie a strisce
senza timidezza comparivano nel giardinetto
tra il lampone, che diventava scuro nell’oscurità.
Io mi trovavo per caso lì vicino
ma sono estranea all’abitudine moderna
di stabilire un rapporto impari,
d’essere in amicizia e chiamare per nome.
Di sera avevo l’onore
di guardare la casa e rivolgere una preghiera
alla casa, al giardinetto, al lampone:
quel nome non osavo pronunciarlo.
Era l’autunno ed era soltanto
una conseguenza e non un pegno dell’estate.
Allora ancora nessuno sapeva che questo
circolo dell’anno non sarebbe stato chiuso.
Sfuggendo rigorosamente agli incontri con lui
io andavo tra gli alberi, verso l’ineluttabilità dell’incontro,
verso la spaziosità del suo viso, verso la cantilena del parlare…
Ma fare rime in tuo nome?
Oh, no.
Egli all’improvviso uscì dalla povera boscaglia di Peredelkino di sera tardi, in ottobre, più di due anni fa. Indossava un abito da cacciatore grezzo e pulito: mantello azzurro, stivali e guanti lavorati ai ferri. Per delicatezza nei suoi confronti e per orgoglio verso me stessa quasi non vedevo il suo volto: soltanto le bianco-luminose vampate delle sue mani nell’oscurità mi abbagliavano gli occhi. Egli disse: “Oh, salve! Mi hanno raccontato di voi e vi ho riconosciuta subito. – Ed all’improvviso, avendo messo in questo una inaspettata carica di sofferenza, implorò: – Per carità! Scusatemi! Proprio adesso devo telefonare!” Fu sul punto di entrare nel piccolo edificio di un ufficio ma di scatto ritornò e dal buio pesto mi colpì in viso, traboccò la chiara luminosità del suo volto, con la fronte e gli zigomi luminescenti sotto la pallida luna. A causa sua mi avvolse un dolce, gelido frescolino shakespeariano. Egli chiese con spavento: “Non avete freddo? Ormai è quasi novembre” e, tutto confuso, goffamente entrò retrocedendo in una porta bassa. Addossata alla parete, lo ascoltavo con il corpo, come un sordo, parlare con qualcuno: come diffondendosi con insistenza dinanzi a lui, lo avvolgeva con l’inquietudine e la passione della voce. Con la schiena e le palme assorbivo i singolari processi del suo modo di parlare: il canto crescente delle frasi, il caro borbottio orientale trasformato in tremito indistinto e rombo di assiti. Io e la casa e i cespugli intorno, senza volerlo, finimmo nei copiosi abbracci di questa intonazione tenerissima, mestamente delicata. Poi egli uscì e facemmo alcuni passi lungo il terreno coperto di ceppi, ramoscelli, siepi per nulla adatto ad una camminata. Ma egli chissà come con facilità ed alla buona se la intendeva con l’abisso diseguale che si era addensato intorno a noi, con le stelle in mostra che brillavano a buon mercato, con la fossa al posto della luna, con gli alberi poco accoglienti disposti rozzamente. Egli disse: “Perché non venite mai a trovarmi? Da me capitano a volte delle persone molto care ed interessanti: non vi annoierete. Venite! Venite domani!” A causa di un capogiro che mi prese, io risposi quasi con alterigia: “Vi ringrazio. In qualche modo verrò senza fallo”.
Dal bosco, come un attore da dietro le quinte,
egli trasse all’improvviso la magniloquenza della posa,
senza ricavarne per questo alcun profitto
presso lo spettatore: e distese le braccia.
Egli fu subito il teatro e se stesso,
quell’antica scena, dove ci sono mirabili parole.
Ecco l’inizio! Si spegne la luce! Alle sue spalle
già balugina il fosforo azzurro.
“Oh, salve! E’ quasi novembre
non avete freddo?” ed è tutto, nulla di più.
Come recitava quell’unico ruolo
di universale dolcezza verso gli uomini e le bestie.
Ecco recitare così il proprio ruolo: scherzando!
seriamente! fino alle lacrime! per sempre! senza malizia!
Come egli recitava, come, tracannando il latte,
gioca col mondo la bestia ed il bambino.
“Addio!” Cantare così tra la gente
non si usa. Ma così cantano sulla ribalta,
così si conclude il monologo di quel dramma
in cui si parla della morte e dell’amore.
Già il sipario! Già si illumina l’oscurità!
Ancora non è tutto: “Dunque, passate domani!”
Oh, tono di trasporto ospitale,
noto solo ai georgiani, come a lui.
Ma doveva esserci al mondo una casa simile
dove andare: non lo so! non è possibile!
E dunque, per sempre sconsideratamente,
io non andai né l’indomani né dopo.
Io piangevo tra le stelle, gli alberi e le dacie,
dopo uno spettacolo nella platea spenta,
sul primo assaggio della perdita
come piangono i bambini ed è sommo il loro pianto.
**
Egli asseriva: “Tra le serre ed i ghiacci,
appena più a sud del paradiso,
suonando uno zufolo da bambini,
vive un secondo mondo
e si chiama Tiflis”.
Ustione per gli occhi, per la mani infreddatura,
mio amore, mio pianto: Tiflis!
La cornice concava della natura,
dove un dio capriccioso, abbandonandosi al capriccio,
sistemò alla meno peggio questo miracolo sulla terra.
La nebbia si levò ai miei occhi,
il mio errore prese la rincorsa,
quando quella città dondolando-dondolando
si stese in semicerchio, come il sorriso
delle labbra benedette di Tamara.
Non so per quale divertimento
egli serrò su di me l’ovale,
baciò, fece fatture sulla vita,
sulla morte ed in punto di morte –
essere l’eterno prigioniero di Metechi.
Se soltanto non dovessi bere
dall’acqua di Kura!
E dall’acqua di Aragvi
non bere!
E le dolcezze del veleno
non conoscere!
E con il viso in quelle erbe
non cadere!
E restituirti i doni
che tu, Georgia, mi hai donato!
Ma è tardi! Ormai il sorso è bevuto
ed è eterna l’ebbrezza e dio vede
che il sogno su di te è profondo
come la valle dell’Alazani.
(1962)
Traduzione di Donata De Bartolomeo
Da: Bella Achmadulina, Poesie scelte (1956-1984), Fondazione Piazzolla 1993