28 Ottobre 2020

Molti citano Hannah Arendt a casaccio, per dare una patina di profondità alle loro sciocchezze. Contro il moralismo di comodo, la filosofa parlava di “responsabilità universale”

In uno straordinario saggio del 1945, intitolato Colpa organizzata e responsabilità universale, la teorica della politica ebreo-tedesca Hannah Arendt avvertì che non sarebbe stato facile distinguere il buon tedesco da quello cattivo. Gli stessi nazisti avevano reso terribilmente difficile distinguere gli eroi dai malvagi, con i dissidenti forzati dallo stato di polizia ad atti fugaci, vaghi, e a parole di resistenza che non avevano prova. Ancor più importante: pressoché tutti i tedeschi – anche i dissidenti – erano coinvolti in un enorme orrore amministrativo. Nessuno poteva dirsi apertamente antifascista in Germania e sopravvivere, erano tutti collusi, in larga o minima parte – se non direttamente implicati. Eppure, la Arendt ha reso più ampio il cerchio della responsabilità proprio nel momento in cui la vendetta premeva, pugnace.

Chi non era in Germania ma ne condannava il governo dall’estero, sarebbe stato tentato di punire i cattivi tedeschi. Ma la verità è che i loro crimini – che, va da sé, meritavano un degno processo – diffondevano complicità ovunque. Finché il male non è del tutto evitabile, anche chi non ha avuto rapporto diretto con i colpevoli non deve agire con orgoglio, ma con vergogna. La religione ebraica, suggerisce la Arendt, non insegna all’umanità un moralismo di comodo ma una “responsabilità universale”. Anche al cospetto del nazismo, la Arendt ha insistito sul fatto che questa responsabilità non avrebbe permesso a nessuno di dire, “Io non sono così”. Rispetto a chi con zelo vendicativo attendeva la punizione dei nazisti, la Arendt preferiva chi era “pieno di una genuina paura per l’inevitabile colpa della razza umana”. Il problema è che questa sorta di vergogna per la propria umanità è una visione non-politica.

Niente di lontanamente simile a quanto è accaduto in Germania tra il 1933 e il 1945 si è verificato negli Stati Uniti d’America dal 2016. Eppure, subito dopo l’elezione di Donald Trump la Arendt è stata la filosofa più citata e abusata per interpretare la sua politica. Sono apparse le prime ‘lezioni’ ispirate dalla Arendt che con dubbia pertinenza hanno narrato l’ascesa di Trump. Il lavoro più noto della pensatrice, Le origini del totalitarismo, è diventato, per anni, un bestseller. La verità è che quel libro, almeno in alcune parti, è una delle cose meno interessanti, meno originali scritte dalla Arendt. Eppure, i commentatori lo hanno regolarmente saccheggiato con l’obbiettivo di denunciare l’atteggiamento sprezzante di Trump verso la verità o per sostenere l’avvento di un nuovo totalitarismo fascista. Che la Arendt sia stata fraintesa, senza dubbio è una delle infrazioni meno gravi di ciò che ora è denominata “la storia intellettuale” dell’era Trump: eppure è allo stesso tempo emblematica.

Agli occhi della “resistenza” americana, la Arendt è diventata, di fatto, un liberal, un critico degli eccessi della violenza di Stato, un pensatore che ci avverte su quanto pericolosi siano i capi di governo mendaci. Gli Stati sono spesso inquietanti nella loro azione politica e i capi di governo possono essere predatori e prevaricatori: non c’è bisogno della Arendt per ribadire questa banalità. La Arendt è diventata una specie di didascalia, una citazione di pregio per chi, disinteressato alla sua opera, la canonizza al costo di ridurla alla più assoluta convenzionalità. Fare riferimento “alla Arendt” ha concesso a molti una riflessione patinata, un tono per pattinare quieti su una sorta di pseudo-profondità. Le sue parole hanno fornito ulteriori motivi di ripulsa nei riguardi di Trump, convalidati dalla filosofa del fascismo. Naturalmente, il fatto che la Arendt sia fuggita negli Stati Uniti e che sia tra i più rinomati analisti dei classici nemici americani, il nazismo e il regime sovietico, ha aiutato.

Chi invoca la Arendt come teorica della nuova era della “post-verità” dimentica che per la studiosa verità e politica non sono mai mescolate. Al contrario: la politica è il regno dell’apparenza, non della corrispondenza con i fatti. Per la Arendt, insomma, siamo da sempre nella post-verità. La filosofa riconosceva l’originalità delle menzogne fasciste – e di quelle americane, in seguito, come la difesa della guerra in Vietnam che i Pentagon Papers rivelano essere stata ingannevole – ma la loro evidenza non consentiva alcun “moralismo” perché “lo sfondo della storia passata… non è esattamente una storia di immacolate virtù”. Questa convinzione la ha guidata nel rifiutare di redigere una pia morale dopo la caduta del nazismo.

La Arendt non credeva in quello che i tedeschi iniziarono a chiamare Stunde Null, l’“ora zero”, la cesura che divide la nuova era incontaminata da quella antica. Tutt’altro: l’idea di una rottura netta con la colpa è solo un modo per convincerci di essere esenti dalla responsabilità universale. Dopo un viaggio in Germania, la Arendt ha osservato che le persone “hanno sviluppato diversi dispositivi per evitare il problema”. È curioso constatare che la Arendt è stata utilizzata costantemente proprio per deviare il problema della responsabilità e delle conseguenze di una cattiva presidenza.

Nel saggio del 1945, la Arendt ha scritto che quando incontrava qualcuno che le diceva di vergognarsi di essere tedesco, era tentata di rispondere, “Io invece mi vergogno di essere umana”. Non generare responsabilità ma creare l’ennesimo capro espiatorio sarà il modo di procedere del mainstream, nel tentativo di mettere tra parentesi l’era Trump e di inaugurare una sorta di “ora zero”. Proprio quando sarà importante leggerla e studiarla, i fanatici smetteranno di citare la Arendt. Così, non solo eviteranno l’imbarazzo di riconoscersi esseri umani: non si vergogneranno neanche di essere americani.

Samuel Moyn

*Samuel Moyn è professore di storia e di istituzioni giuridiche a Yale, dopo aver insegnato alla Columbia e ad Harvard. Tra i suoi ultimi libri, “Not Enough: Human Rights in an Unequal World” (Harvard University Press, 2018); l’articolo è stato pubblicato in origine su “Prospect”.  

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