Alessandro Ciacci, riminese di Rimini, pare un uomo d’altri tempi che attraversa il presente con fare all’inglese nei gesti e nei modi, sempre misurati, mai esagerati. La sua comicità, lontana dalle mode, si cala nel contemporaneo utilizzando i classici, Cole Porter, Szentkuthy, i bizantini e Frye. In attesa di vederlo live a Milano al Teatro della Cooperativa l’ho intervistato per farmi sorprendere dalla sua parlantina a mitraglia, dal sorriso magico mandrakiano, dalla saggezza del giovanotto che arriva dritto al punto.
Alessandro, a teatro, nel buio illuminato solo dal faro, la tua voce si fa mitraglia e comincia una battaglia pregna di quotidiano che si confonde con la storia, il cinema, la tua generazione, l’Italia, la morte. Dove finisce l’uomo e comincia il rabdomante che cerca parole per costruire gag esilaranti e riflessive? Da dove comincia tutto?
Paradossalmente, tutto ha avuto inizio quando è stata rimossa la distinzione tra i due, l’uomo è il rabdomante e viceversa. L’accettazione di questa fusione, di questa unità, ha creato le condizioni perché potesse nascere e maturare una visione, un manifesto, se vuoi, uno stile. Allo stesso modo non credo ci siano scissioni all’interno del mio lavoro: la scrittura comica, la scrittura drammaturgica, quella narrativa, la performance sul palco, non sono separati, compartimenti stagni, è tutto sempre fuso contemporaneamente. Il mio è concubinaggio! Parlerei piuttosto di asperità: fanno però tutte parte di uno stesso terreno. Terreno su cui, a questo punto, può avere inizio la battaglia di cui parli. A questo proposito mi viene in mente Szentkuthy, lo scrittore ungherese, quando dice “la radice delle grandi culture si trova sempre altrove: quella dell’Ellade in Persia, quella di Roma nell’Ellade”; allora per rispondere alla domanda, vorrei parafrasarlo così, la radice delle mie Parole, scritte o “smitragliate” dal palco, si trova nel mio essere, per indole e vocazione, un Inseguitore della Totalità (definizione rubata allo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas). Ecco il nucleo di origine, la mia ambizione massimalista ed enciclopedica, dove tutto converge, il mio amore per l’accumulo, la congerie, per il felice vanverare di manganelliana memoria. Per il bizantinismo (dopotutto sono nato a Rimini). Mi definisco uno “scrittore (quindi un comico) menippeo”, in riferimento alla satira di cui parla Frye, all’anatomia: più Ateneo di Naucrati, che non Lenny Bruce, per intenderci. Il tutto amalgamato con quantità industriali di “anasyrma”, il riso paradigmatico dei greci, quello di chi si tira giù i calzoni e mostra i genitali, di chi non prende mai nulla sul serio, sbertuccia l’Alto e sublima il Basso, di chi alterna sesso e filosofia, Tolstoj e i Legnanesi. Preferendo questi ultimi, ovvio. Questa è la Grande Opera che perseguo. Temeraria? Senza senso? Forse. Ma – ci ricorda Arbasino – sono proprio i lavori imprudenti quelli che val la pena di tentare.
La tua comicità è appesa al filo del teatro. Sei fondamentalmente un autore teatrale lontano dalle mode che imperversano eppure riesci a ritagliarti uno spazio incredibilmente contemporaneo in quello che si potrebbe definire il nuovo scenario comico. Come ci riesci?
Mi credi se ti dico che è un mistero, in primis per me? È un quesito su cui mi interrogo spesso, ma il segreto – ammesso che ci sia – non saprei dire dove si celi. Azzardo una risposta. Innanzitutto, evidentemente, la gente ride e si diverte al punto da tornare a vedere lo spettacolo, dunque senza falsa modestia credo che la mia sia una proposta valida. Ma la “riuscita” di cui parli, potrebbe essere la risultante di due forze, una che compete me, la seconda da ascrivere, indirettamente, proprio al “nuovo scenario comico”. Mi spiego. Fin dalle mie prime esibizioni come monologhista, mi è sempre stata riconosciuta una originalità e di contenuti e di scrittura. Credo questo dipenda dal fatto che non ho mai voluto fare il comico (alle elementari non ero certo quello che faceva ridere i compagnucci di classe con imitazioni e sberleffi) ma sono arrivato alla comicità per vie traverse, anche un po’ per caso. Così, quando ho iniziato a scrivere monologhi non ho seguito, come dire, l’algoritmo, la corrente, l’argomento a presa facile, il fumo negli occhi, ma sono rimasto coerente al mio stile, “lo stile è l’uomo stesso” ci ricorda Buffon, dunque tutto; ben sapendo che, soprattutto in Italia, la fisiologia del comico è molto distante dalla mia. Questa scelta, portata avanti con determinazione, ha pagato. Lo scenario stand up, invece, è indirettamente responsabile perché, come dire, tende alla monocromia, ad un colore che peraltro assomiglia molto al grigio. Non è questo il luogo per entrare nel merito, ma la tendenza che imperversa è quella di duplicare la realtà con l’algoritmo delle parole-chiave a portata di mano, una realtà che giocoforza ne uscirà sciatta e impoverita, perché manca, nella stragrande maggioranza, il famigerato stile di cui sopra, oltre che la “fame”. Mancano punti di vista freschi, innovativi, i monologhi sono interscambiabili, gli interpreti giocano a ribasso, della sciatteria fanno un motivo di orgoglio, predicano (ai già convertiti!) con cialtroneria: mi spiace, ma a me non interessa, e scelgo di andare (attenzione: come già altri) in tutt’altra direzione. E ad aspettarmi, ripeto, trovo tanto pubblico che si diverte, l’importante è quello, non l’ascrizione a un’etichetta. “Benedetto quel libro che non trova la sua collana”, dice Manganelli.
Tra le pieghe della tua prosa che si trasforma in gag c’è il contemporaneo. La vita che inciampa continuamente in una danza di sberleffi a sé stessa. Molta stand up è basata su questo. Far ridere con le cose dell’oggi. Perché e soprattutto come vivi il tuo contemporaneo?
“Sperando in una vita meno disgraziata e più Cole Porter”, mi verrebbe voglia di risponderti, pescando ancora dal prediletto Arbasino: ma anche in questo caso la situazione è un po’ più complessa di così. Intanto, perché non ci siano malintesi, e non corra il rischio di impolverare troppo le mie parole, voglio essere molto chiaro su una cosa: per quanto tempo trascorra in mezzo ai libri o con la matita in mano a scrivere, arriva sempre il momento (benedetto!) in cui tutto questo va trasformato in due ore di spettacolo da ridere, in cui l’enciclopedia si riveste di paillettes, di frivolezza. È un lavoro, il mio, prima di tutto artigianale, che usa tanto l’intelletto quanto il corpo, e si alimenta a libido performandi e traspirazione. Questo implica che non esiste nessuna torre d’avorio in cui ritirarsi (solo l’idea mi procura l’orticaria), ma al contrario non potrei essere più calato nel presente: mi interessa vivisezionarlo, studiarlo, sporcarmici le mani; senza snobismi ma certo con l’occhio critico dell’antropologo. Per il resto, esiste anche un’altra contemporaneità, forse ancor più feconda, che è quella che ciascuno si plasma, un contemporaneo personale, sentimentale forse, che dà la possibilità di scegliersi i propri interlocutori e spostare il dialogo, il confronto creativo, la rifrazione, il riverbero, su altre linee spazio-temporali. Come ha fatto per esempio Joyce, che era su una frequenza in cui aveva per contemporanei Dante e Giordano Bruno. Così “quel” mio contemporaneo si nutre del dialogo costante con l’Opera di Arbasino (si era forse capito), di Paolo Poli, ma anche dei Monty Python, Joyce, Vila-Matas, Alexander Von Humboldt, Sterne… e mi taccio perché l’elenco è lungo.
La morte corre sul filo dell’autore che cerca sempre di rimuoverla, di dominarla. Fallendo miseramente. Viviamo per raggiungere la fine. La fine di uno spettacolo, la fine di tutto. Allora scrivere non è forse un tentativo per esaltare il tempo che rimane?
Anche, certo: la scrittura lo fa, peraltro, lasciando qualcosa che “rimane” a sua volta. Solo l’arte attoriale non lascia niente dietro di sé, in questo è l’apoteosi dell’effimero: per questo voglio vivere il più possibile “la” e “in” scena. Mi permetterei allora un’ultima parafrasi da Arbasino, quando scrive “La finalità del romanzo o del dramma dovrebbe essere prima di tutto il Divertimento”: io direi che la finalità di ogni cosa dovrebbe essere il Divertimento, così che quando lo spettacolo finirà (speriamo il più tardi possibile), potremo dire di essercelo goduto a pieno e che è valso il prezzo del biglietto. Comunque, da uomo di teatro, mi permetto di dire che l’importante non è lo Spettacolo in sé, né la sua fine: la cosa più importante è decidere dove andare a mangiare dopo.
Giosuè Gorinzi