30 Ottobre 2018

Ma cosa ci fa Robert Louis Stevenson a Helsinki? Reportage finlandese dalla città gelida dove i tram hanno il passo di un funzionario di partito e gli elfi ti servono la cena

Dall’alto, le città sembrano pesci trasparenti, subacquei, le luci ne definiscono lo scheletro. Pesci frenati nella rincorsa millenaria di cibo – e chi è preda ha dimenticato il suo passato da predatore.

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Sulla Finlandia, in effetti, si veleggia: l’ala dell’aeroplano sembra una vela, vaga sui flutti nuvolosi – e tu, fisso all’oblò, non hai forse la malizia di un angelo che sovverte il clima della colpa in virtuosismo?

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Gli aeroporti sono luoghi mistici, forse è così l’ultimo giorno, il Giorno dei Giorni: un assembramento di umani davanti al gate. Chi è destinato qui – chi là – avrà senso, allora, preparare i bagagli? Quale ‘cosa’, intendo, è superiore alla planimetria dei tuoi ricordi? Ma, in fondo, dico, non si parte forse per dimenticare più che per mettere contrafforti alla memoria?

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C’è chi agisce – e chi guarda. Io guardo. Guardo le facce – m’infilo dentro gli occhi di ciascuno come sotto le lenzuola – quasi tutti masticano lingue a me ignote – ipotizzo una vita. Chi brulica nella gioia, chi è grave di avventatezze, chi si muove verso un funerale, chi vola a sposarsi – chi vuole perdersi, chi ha trovato l’amore, il ruolo. Chi agisce è pieno di sé – chi guarda si fa riempire da tutti gli altri. Un bambino che piange, non vuole partire – un altro è eccitato – poi c’è sempre quello scorcio di sguardo per cui, pensi, e se fosse lì, ora, la mia felicità? Tutti lavorano – ma è un’opera anche quella di guardare gli altri. Custodirli con una operosa curiosità – nessuno sa chi sei, mica sa che lo stai guardando – eppure, osservi. E pensi di poter proteggere, così. Impunemente. Oliando ad altro la gratitudine – grato solo di guardare. Perché non andare fiero di questa debolezza?

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Helsinki
Benvenuti a Helsinki… sovietica, gelida, fosforescente

Stretta tra Svezia e zar, Helsinki ha una natura piamente sovietica. Sfilano, come triceratopi di cemento, case-caserme, con la stessa finestra quadrata e un cubo fosforescente all’ingresso – quasi che ogni edificio sia una vespaio di spie o di lussurie, è lo stesso. Forse, giri il cubo, descrivi il numero, ti trovi in una stanza delle torture o dei piaceri. I tram – tanti, che scalfiscono l’oscurità a unghiate – hanno il passo definitivo di un uomo di partito. Benché biondi, i finnici di Helsinki in effetti possiedono una andatura grigia.

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Una donna ci serve cibo freddo, in porzioni naniformi. Pensavo di mangiare una tagliata di renna, ma qui, nell’incipit finlandese, dove i riverberi di San Pietroburgo non donano fasto al nordico, non è il paese dei balocchi: mangiare costa caro – intorno ai 50 euro a persona – ed è un’avventura. La donna che ci serve non ha mai visitato l’Italia, ha occhi intensi e ciglia raffinate – sembra un elfo, un elfo a Helsinki.

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Il negozio di cibo asiatico a Helsinki mi pare il melting pot giunto a maturazione. Immagino il proprietario indiano, con famiglia in Finlandia – la pulsione dell’esilio è sconfinata.

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Non so perché, mi sono portato appresso l’Onegin di Aleksandr Puskin – mi sembra un’opera che ha la leggerezza di un cristallo di neve – tanto enigmatica quanto rapida, ripida, una veglia nel disastro. “Eccentrico triste e pericoloso”, “spettro meschino”, “una riedizione di capricci altrui”, “una parodia”, è descritto Onegin, che ha il culto vizioso di Byron e la fame di martirio di un monaco stilita. Soltanto in luoghi galvanizzati dal gelo, penso, si può amare l’impossibile, si ambisce lo sfracello.

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Il neon dice 2 gradi. Un altro giura che siamo intorno a quota 0. Il vento colpisce basso – eppure per i finnici questa è brezza. Le strade lampeggiano di ghiaccio – si scivola, ma qualcuno, l’angelo dell’istinto, ci afferra proprio prima che cadiamo.

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Visitare un luogo straniero, per me, è pura ebbrezza linguistica. La lingua ha una struttura urbanistica più affascinante di piazze, monumenti, viavai viario. Helsinki è una città limpida e brutta – il finlandese mi emoziona. Mi piace proprio non capire nulla. Mentre dall’aeroporto approdo alla città, i cartelli stradali sono una fiera di nomi che mi stregano. Faccio in tempo ad appuntarne uno. Tuusula. Mi ricorda Tusitala, che era il nome con cui gli abitanti delle Samoa chiamavano Robert Louis Stevenson, ‘narratore di storie’. Così, del tutto casualmente, le isole del Pacifico e la landa delle renne stanno, entrambi, in un lampo del mio cervello. Vedi?, è micidiale il linguaggio. (d.b.)

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