Che F. Scott Fitzgerald e l’Italia fosse una scusa per parlare d’altro, credo sia stato evidente a chiunque si sia trovato tra le mani questo libricino. Certo, la situazione era favorevole a un saggio che indagasse il rapporto di F. Scott Fitzgerald con la critica italiana: c’erano state, negli ultimi anni, una tale quantità di nuove pubblicazioni che non si potevano spiegare solo con la liberazione dei diritti. E con questo intendo dire che, accanto a riedizioni e racconti per noi inediti, c’erano delle raccolte di lettere, come per esempio quella magistrale a cura di Leonardo Luccone Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (minimum fax, 2017), che a prima vista potevano interessare solo gli addetti ai lavori e che invece venivano proposte al pubblico mainstream. Perché? Era una bella domanda, che poteva giustificare uno scritto.
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Però ricostruire non sempre equivale a creare. Così il saggio ha preso una piega ulteriore, in qualche modo occulta. La tesi che ci tenevo a dimostrare era questa: se si leggono gli scritti di Fitzgerald in ordine cronologico, scopriamo che tutto ruota intorno alla coppia Scott & Zelda. Mi rendo conto che possa sembrare un assioma buttato là, ma il luogo per spiegarmi meglio rimane il libro. Una cosa, almeno per me, è certa: se cambiamo lente d’ingrandimento, questa può forse funzionare per uno o due scritti, ma mai per tutta l’opera di Fitzgerald. L’unica che funziona sempre e comunque ha un nome e un cognome precisi: Zelda Sayre.
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Qui vorrei dire piuttosto qualche cosa sul metodo usato, che a guardare bene è stato spesso rigettato con incredulità. Il primo a suonarmele, fu l’amico e collega Michelangelo Franchini: per essere considerato tale, mi ha detto, un metodo critico deve essere reiterabile a più riprese. E quindi, anziché critica, sarebbe stato più giusto chiamarlo uno studio empatico, se questo significhi davvero qualche qualcosa. Poi fu il turno di Francesco Muzzioli, professore di critica letteraria all’Università La Sapienza di Roma: l’identificazione del lettore con uno o più personaggi è una delle maniere più puerili di leggere un libro. Ma F. Scott Fitzgerald e l’Italia non tentava una identificazione tra me e Fitzgerald, quanto semmai una sovrapposizione. Io posso dire di essere F. Scott Fitzgerald, ma non posso dire, per esempio, di essere anche Jack London, Ray Bradbury o Jack Kerouac (per rimanere su un paio di altri autori di cui mi sono occupato). Che si trattasse di esclusività, non lo nego: ma nel contenuto, non nella forma. La critica empatica può essere applicata da quanti studiosi lo si voglia, tuttavia non per tutta la propria carriera critica. Per funzionare, il critico e l’autore o l’autrice studiati devono tendere a una forma di empatia eccezionale.
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Ecco però un nuovo problema: come facciamo a essere sicuri che quel rapporto stia avvenendo per davvero? L’empatia non si può misurare, non possiamo essere assolutamente certi che il critico non ci stiano prendendo in giro. La risposta è una sola: leggendolo. Ho sempre avuto un’idea piuttosto puerile della letteratura, per cui a interessarmi erano maggiormente gli uomini o le donne dietro il libro. Ogni lettore incontra, prima o poi, l’autore della propria vita – mi rendo conto che possa sembrare una conclusione banale, ma certo è meglio di usare espressioni come: autore preferito. C’è di più: ogni lettore incontra, prima o poi, l’autore che pare aver già raccontato la propria vita e che, non necessariamente, coincide con l’autore tipo precedente. Quello che ho immaginato è una costellazione di critici che raccontino delle loro sovrapposizioni esistenziali. E questo non ha niente a che vedere con la critica psicoanalitica o semplicemente con le biografie. A meno che il critico non si esponga con la sua storia privata, il lettore non potrà mai verificare quanto possa esserci di sovrapponibile tra due vite. Per essere ancora una volta banali: non troverete mai, se non in rari casi, il critico che vi dica all’autore è successa esattamente la stessa cosa che è successa a me e che vi spieghi anche che cosa. Dovrete affidarvi alla lettura: se la critica empatica funziona, sentirete che c’è qualcosa di diverso. Che ciò che vi stanno raccontando, riguarda i rapporti umani tanto quanto la letteratura. Che la vita può essere la letteratura, come scriveva Carlo Bo a proposito degli autori americani. In una parola: se siete dei tipetti sensibili o ne resterete incantati o denuncerete il critico come l’ennesimo pazzo megalomane.
Antonio Merola
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Per gentile concessione dell’editore si pubblica un estratto dal libro di Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi Editore, 2018).
Conclusioni: il primo passo per una critica empatica
Nello studio americano The foreign Critical Reputation of F.Scott Fitzgerald (1980), Linda C. Stanley muoveva una forte critica alla critica italiana della prima metà del Novecento: il nostro paese cioè sembrava preferire a Fitzgerald quegli scrittori (che considerava) proletari come Hemingway e Faulkner.
L’impegno principale della nuova critica in un primo momento è stato allora quello di conferire una «reputazione» allo scrittore-Fitzgerald, dissociandolo dalla leggenda biografica dell’uomo. Successivamente, grazie soprattutto alla partecipazione americana, lo scrittore e l’uomo sono venuti finalmente a coincidere: il materiale della narrazione proviene dalla sincerità con cui Fitzgerald elabora la propria esistenza – e viceversa. Oggi la recente traduzione a cura di Daniela De Lorenzo dello studio imparziale di Richard Owen, Hemingway e l’Italia (Donzelli, 2017), ci chiarisce meglio la predilezione tutta italiana per lo scrittore.
Rimane aperta tuttavia una problematicità: dopo avere superato l’esigenza della comparazione, come bisogna affrontare criticamente Fitzgerald? La strada finora percorsa ci porta sulla topica della doppiezza. Anche qui però bisognerebbe capire anzi tutto sopra quale binarietà ragionare: per fare un esempio, è stato posto l’accento più volte intorno a quella parabola della felicità propria dello scrittore-uomo, che veniva spiegata con una biografia prima e dopo la malattia di Zelda, o alla crisi del Crack-up, oppure con la contrapposizione dell’enorme successo economico e di pubblico alla sopravvivenza come semplice uno tra (o dei) molti a Hollywood, ma potremmo continuare ancora con una critica testuale o tematica. Sergio Perosa in particolare individuava una preminenza speciale nella tematica dell’amore assieme a quella della ricchezza, che Fernanda Pivano nella introduzione ai Romanzi riassumeva nella esclusività della seconda: o meglio, la patologia di Zelda le sembrava una conseguenza della più ampia malattia generazionale verso il denaro e l’incapacità della donna di vivere al di fuori di quella leggenda. Pivano lamentava cioè l’assenza nel panorama italiano di uno studio che si concentrasse prevalentemente sul rapporto tra Fitzgerald e il potere suggestivo della materialità del successo. Ma più avanti, Barbara Nugnes nel proprio Invito alla lettura di Francis Scott Fitzgerald (1977), propone una suggestione sopra la ricchezza diversa: “Lo stesso tema della ricchezza, il più ossessivo e onnipresente nell’opera dello scrittore, e quello su cui più frequentemente si appuntavano le critiche dei contemporanei, si rivelava ora, a ben guardare, carico di implicazioni simboliche. I ricchi di Fitzgerald non somigliano ai ricchi di Dreiser e non somigliano ai ricchi di James. Forse – come osservò Leslie Fiedler – essi non somigliano neppure ai veri ricchi. Fitzgerald si serve di loro come Melville si era servito della sua balena: sono un mito, un simbolo, l’incarnazione di tutte le ambiguità della vita, menzogna e fascino, incanto e orrore. Arrivare a conoscerli è conoscere la Verità”.
Credo però che la questione dovrebbe venire presentata secondo una ulteriore prospettiva: non voglio negare l’importanza (o sarebbe meglio dire il fascino) che «la leggenda del ricco» esercitò sopra la poetica di Fitzgerald, ma sancirne l’esaustività critica sarebbe come banalizzare la feroce lotta che l’uomo condusse nella seconda parte della propria esistenza – se è giusto dividere una vita in partes.
Dopo la pubblicazione de I Taccuini personali dell’autore, (introd. di Sergio Perosa, trad. Armando Pajalich e Domenico Tarizzo, Einaudi, 1980), l’ultimo ventennio ha portato alla luce una sequela di pubblicazioni come Caro Scott, carissima Zelda. Lettere d’amore di F. Scott Fitzgerald e Zelda Fitzgerald, (trad. di Marina Premoli, La tartaruga, 2003), o le Lettere a Scottie, con lettere inedite di F. Scott Fitzgerald, (a cura di Massimo Bacigalupo, Archinto, 2003), e la recente Sarà un capolavoro: lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (a cura di Leonardo G. Luccone, trad. di Vincenzo Perna, Minimum Fax, 2017); assieme alla pubblicazione quasi completa dell’intera produzione minore dello scrittore, tra cui l’ultima Per te morirei e altri racconti perduti, (trad. Vincenzo Latronico, Rizzoli, 2017): tutto questo gigantesco lavoro di recupero ci fornisce finalmente la strumentazione da cui (ri)partire per una critica biografica della produzione fitzgeraldiana.
E in particolare, ritengo che bisognerebbe riprendere quella «tematica amorosa» individuata da Perosa: considerare cioè la storia creativa dello scrittore come una intima riflessione sopra la storia amorosa con Zelda Sayre. Abbiamo già avuto modo di suggerire come una inquadratura simile funzioni maggiormente rispetto a relegare la scrittura di Fitzgerald intorno all’età del jazz o a qualsiasi altro periodo storico particolare: se si cerca di leggere infatti l’intera produzione fitzgeraldiana come lo specchio di una singolarità temporale, la poetica comune dell’uomo rischia di sfuggire perché è la coppia che si muove negli Anni Venti, nella e oltre la crisi che segue il boom e infine nella grande oscurità che anticipa la guerra; ma se il successo porta Scott e Zelda a vivere quel primo decennio dalla cima di una montagna artificiale, e quindi a coincidere con esso (e se vogliamo a rappresentarlo), è pure vero che il resto della loro esistenza prosegue all’interno di un confine spirituale personale e appartato: la patologia psichiatrica della donna.
Se esiste in Fitzgerald una doppiezza è proprio verso la moglie: il lavoro continuo contro la pazzia, ma anche il dialogo con essa; la sublime coincidenza tra uno spirito di conservazione e uno di distruzione. Era impossibile per lui proseguire la vita senza la compiutezza dell’amore: o meglio, Fitzgerald lavora, e lavora sodo (anche fino all’infarto), ma si muove nella società da allora in poi come il fantasma di se stesso; lavora per pagare la cura ormai senza speranza di Zelda. E se tornerà a scrivere con Gli ultimi fuochi, è per cercare lei in un mondo altro: lontano dalla clinica e ancora più lontano dalla realtà.
Il successo è solo una illusione di guarigione (peraltro momentanea): con il primo romanzo cioè aveva “conquistato” Zelda, per guardare poi alla ricchezza come a uno strumento principe di tranquillità. Ma già nel Belli e dannati comprende la superficialità di questa strategia; quando la moglie poi comincia a dare il primo segnale di confusione, Fitzgerald ci presenta Gatsby: al gangster non serve più il denaro, perché la «luce verde» non è altro che la normalità di Zelda, la sensazione atroce dell’incombenza della malattia. E con essa, persino l’esigenza della grande scrittura si allontana: la produzione di Fitzgerald per lungo tempo si limita alla commerciabilità della stessa sopra le riviste popolari. Tenera è la notte arriva solo dopo il lungo travaglio personale della coppia; ma il romanzo non poteva trovare allora favore nel grande pubblico, perché è il resoconto dettagliato di una esperienza titanica: la comprensione della pazzia. La critica sosteneva infatti che Dick Diver non sembrasse uno psichiatra: non aveva cioè la competenza (e la conoscenza) della medicina. Ma Fitzgerald ci presentava invece una storia diversa: l’universalità dell’amore; o meglio, la capacità dell’amore oltre l’individuo, che supera l’ideale romantico (che cioè si fonda sopra l’idea dell’altro) per incontrare e congiungersi con l’altro fino alla creazione di un sentire doppio, e assieme comune.
Sembra una conclusione che poco ha di critico: servirebbe uno studio puntuale a partire dal testo, per dimostrare come la presenza di Zelda sia onnipresente in ciascuna figura femminile (protagonista) della produzione fitzgeraldiana. A guardare bene infatti, romanzo e realtà biografica della coppia vengono sempre a coincidere: il pattern di ciascuna storia si muove intorno a una vicenda romantica e se si confronta quella finzione con la corrispondenza biografica coincidente alla scrittura della stessa, è chiaro che Fitzgerald sta parlando a nome di lui e di Zelda. Ancora, abbiamo detto che una critica fitzgeraldiana debba necessariamente considerare la produzione intera dello scrittore: se per esempio ci avviciniamo al solo Di qua dal Paradiso, l’interpretazione che vuole Fitzgerald come il portavoce di una storicità particolare sembra funzionare; ma ecco che non appena allarghiamo il nostro orizzonte critico, ogni tentativo di categorizzazione particolare si dimostra inadeguato. Al contrario invece, la riflessione sopra la coppia reale rimane l’unica chiave di lettura che funziona e singolarmente e nella totalità della produzione: l’evoluzione (o l’involuzione) di ciascuna tematica, o ancora la pluralità delle ambientazioni, non servono a giustificare la coppia personaggio, non siamo di fronte cioè alla pretestualità della trama come esempio per spiegare romanticamente una idea a posteriori (e del resto abbiamo visto come accada che Fitzgerald trascenda se stesso durante il processo creativo); ma è l’agens stesso della coppia nella storia (o nella propria esistenza) che trascina con sé l’ambientazione o una tematica come una conseguenza: dal dialogo con se stesso e con Zelda nasce cioè tutta l’opera di Fitzgerald.
Antonio Merola
*In copertina: Francis Scott Fitzgerald, Zelda e la figlia Frances, detto ‘Scottie’