“Il roveto in cenere”: sullo straordinario romanzo di Manès Sperber
Libri
Silvano Calzini
Leggete questo libro solo se siete stati mutilati da dentro, solo se un’esplosione intima e senza suono si è portata via qualcosa di voi, un braccio, una gamba o la gioia. Il silenzio della pietra di Filiz Özdem (Stilo Editrice 2018; trad. it. di Anna Lia Proietti) è un libro intenso che scava nella verità, che dissoda il terreno talmente in profondità che arriva allo strato della pietra, toglie tutte le radici antiche.
Il racconto della storia familiare è l’inizio del libro e sarà anche il filo che tiene uniti i capitoli, un filamento di DNA perché “non è una semplice catena che trasmette le sopracciglia, gli occhi, il colore dei capelli, le malattie e talvolta i comportamenti. Con questa eredità ci passano le esperienze, i sentimenti e i ricordi”. L’eredità del sangue quindi come ricerca del sé, dalle esperienze degli avi ritroviamo simili i dolori, capiamo meglio le nostre paure, i rumori che fanno i nostri architravi crepati.
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La narrazione della Özdem procede incatenata tra ricordi infantili, riflessioni e visioni oniriche. Il sogno è un elemento importante: dal sogno recuperiamo il sonno dei morti, noi vivi abbiamo braccia, gambe e il potere della parola che loro non possiedono più, ci fanno loro portavoci, dai simboli onirici risale la verità taciuta. La storia si ambienta in Turchia a Istanbul nello sfondo doloroso dei contrasti tra armeni cristiani e musulmani, tra fede rinnegata e acquisita, tra espatri, ritorni e resistenze.
La paura la si porta inscritta come un tassello nella catena del codice genetico, ci sono paure specifiche che provengono da altri mondi, da altre epoche, che sembrano non appartenerci. Ecco che il presente e il passato si fondono attraverso il sogno, il dolore dell’abbandono esce dalla crepa e si fa liquido. Liquido come l’urina che da bambina scorreva a tradimento di notte, si faceva strada tra i vestiti fino alle lenzuola e spandeva nel materasso. Dal caldo al ghiaccio, il corpo si secca e si raffredda, la paura si mischia al senso di colpa, alla vergogna e all’umiliazione. Avere i flussi aperti è faticoso, l’apertura costa sempre fatica, si rimane soli e “non riesco a misurare la distanza che si apre tra me e me. Non so quantificare il distacco”. Questo libro è per chi ha provato l’amore, lo slancio, la speranza e la gioia e ha capito poco dopo che abissale è la caduta, veloce è l’annientamento della gioia.
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Sude, la protagonista, perde l’uomo che ama e insieme a lui si perde pezzo per pezzo. Amare è una decisione individuale, a volte si salta il burrone, nel salto c’è una decisione, i muscoli si tendono, a volte si cade direttamente. Ma “il primo colpo mortale” ce lo impartiamo da soli. L’amato è dio: “ma chi vede dio, vede anche la morte”. Sude passa dal sentirsi una sfollata dal suo corpo, un’anima disabitata a una donna nuova che si sveglia, di cui ha paura, che parla a sé stessa come fossero due. Come riesce a vedere un dio, l’amore, la morte e ritornare ad abitarsi? Ricerca le tensioni primarie nella storia del suo codice genetico, restituisce un nome ai morti seppelliti senza nome e nel nome si dà pace, perché “io sono nata perché gli anelli rotti si sono uniti ad altre catene. I segreti di quegli anelli, sempre silenziosi, (…) si erano rifugiati nell’oblio, erano morti con loro.”
Un libro questo della Özdem che ci fa chiedere che cosa ci sia rimasto nel sangue degli altri, che pure sono in noi e allo stesso tempo estranei, quanta paura possiamo farci da soli se la ferita ha preso tutta la dimensione del corpo e arriviamo a non riconoscerci. Se davvero ci bastano le storie.
Clery Celeste
*In copertina: Egon Schiele, “Abbraccio”, 1912