La Libreria Antiquaria Umberto Saba, al 30 di via San Nicolò, Trieste, si chiamava semplicemente Libreria Antica e Moderna. Era di Giuseppe Mayländer, libraio di talento, editore, che si era trasferito in città nel 1904, a 27 anni. Nato in Croazia da famiglia ebraica di origine ungherese, Mayländer aveva rilevato la sezione antiquaria della Libreria Quidde, piuttosto nota a Trieste. Capace di aumentare il traffico librario, aveva trasferito la sede del suo ufficio dal civico 33 agli spazi, più ampi, del 30, nel 1910. Nove anni dopo, Umberto Saba, che aveva ricevuto in eredità dalla zia un piccolo capitale, acquistò il fatidico “antro oscuro”, opificio, stamberga, rifugio di una vita. Mayländer doveva liberarsi del locale: era stato assunto a Bologna dalle Messaggerie Italiane; Saba dirigeva la sala cinematografica del cognato. L’affare fu congeniale a entrambi: a Bologna, tra l’altro, Mayländer acquisì la casa editrice Apollo, che stampava grandi opere di Tolstoj, Balzac, Čechov ed era specializzata in edizioni d’arte. Con le Edizioni La Libreria Antica e Moderna, Saba si pubblica Il Canzoniere (1921, tirato in 500 copie) e Il mio cuore e la mia casa dell’amico Virgilio Giotti (1920); dal 1923 comincia a stampare il Catalogo della libreria, inviato agli avventori, ma revocato “ai signori (privati o librai) i quali non mi hanno ancora fatto una, sia pur piccola, ordinazione”. Nel Catalogo stampato nel marzo 1948, Saba svela il suo legame con la libreria, dicendo di “un congedo – senza rancore – da una vita che non è stata né breve né facile; una buona metà della quale l’ho trascorsa appunto nella Bottega di via San Nicolò”:
“Chi me l’avrebbe detto il giorno che subito dopo l’altra – ultima – guerra, vidi per la prima volta e dall’esterno, passando di là per caso, il vero antro funesto? Ricordo perfettamente, come fosse oggi, che era una magnifica giornata del giovane autunno. Ricordo anche di aver pensato, fra me e me: Che orrore se il destino mi obbligasse a passare là dentro il resto della mia vita! Cinque giorni dopo, e sempre per caso, avevo comprato la Libreria. Si deve arguire da ciò che, qualche volta, i nostri timori, i nostri disgusti, i nostri ‘tutto sì, ma quello no’ non siano in profondità che speranze desideri presagi che ci arrivano in forma rovesciata, alla coscienza?”.
Dal luglio del 1958, morto Saba da un anno, Carlo Cerne diventa il proprietario unico della Libreria Antiquaria Umberto Saba – era stata battezzata così nel 1933. Orfano di padre, cresciuto in un collegio per ragazzi poveri, Cerne, “il buon Carletto”, era stato assunto da Saba come aiutante e factotum nel 1924. Dal 1981, in seguito alla sua morte, è il figlio di Carlo, Mario Cerne a continuare le attività della libreria che fu di Saba.
Oggi della Libreria Antiquaria Umberto Saba resta la deliziosa insegna, una didascalia comunale, l’accenno negli opuscoli turistici. Di solito, la vetrina è vuota e la saracinesca abbassata per metà: sembra uno spazio dismesso, in disuso, sfitto. Bisogna avere la pazienza di attaccarsi al telefono, il numero della libreria è ovunque, in rete. Se è dell’umore, Mario Cerne apre la serranda e vi fa entrare. L’uomo – poco elegante, brusco, scaltrito, chiacchierone – si mette in posa, presso il tavolo, all’ingresso, che rigurgita libri. Comincia facendovi vedere un facsimile dei quaderni su cui Saba ha scritto, in calligrafia verde, le sue poesie; accenna al poeta e più che altro parla di sé. Sa di essere un personaggio, monumento vivente della Trieste odierna, sempre azzurra: può permettersi la sprezzatura, una cauta maleducazione, e di rimpiangere gli austriaci. Dice in sostanza ciò che ha scritto nel 2019 nel volume – venduto in sede – La libreria del poeta Umberto Saba (a cura di Elena Bizjak Vinci e Stelio Vinci):
“Pur rappresentando una realtà fuori dal tempo e probabilmente superata dalle moderne tecnologie, la ‘libreria di Saba’ è a tutti gli effetti una preziosa attrazione turistica, un museo cittadino per accedere al quale oltretutto non è necessario acquistare un biglietto d’ingresso… La realtà, però, è che la libreria oggi resiste solo grazie alla determinazione derivante dalla nostalgia e dal sentimento di chi ha caparbiamente voluto conservarla nonostante una città capace di lasciar morire altri locali storici, simboli del suo illustre passato”.
Di Trieste, Cerne conosce perfino le termiti e le formiche odalische: raffina brevi crudeltà, e del mondo meraviglioso narrato da Saba – già allora screziato da laminate nostalgie – non dice che l’agonia, l’agone dei gonzi, il regno del rimpianto. Naturalmente, i libri che vi capita di voler acquistare, i più belli, sono quelli che “non metto in vendita”; il resto – volumi e volumi, impilati, stazzonati, stravecchi, quaderni slabbrati, tomi di magniloquente inutilità – è puro paesaggio, la quinta necessaria allo spettacolo – estremo – del libraio erede di Saba. Un paio di amici – dai volti improbabili, volatili e locali – hanno interrotto il monologo.
Prima dell’arrivo di “Carletto”, Umberto Saba passò in rassegna diversi “commessi”. Preferiva le ragazze, beandosi della loro bellezza, implume. Una di queste, Giulia Morpurgo, orfana, poco meno che diciassettenne, fu eletta dal poeta come “Chiaretta”, specie di impossibile musa (“Sovrumana dolcezza/ io so, che ti farà i begli occhi chiudere/ come la morte”). La ragazza lavorò per Saba dal 1920 al ’21: il corteggiamento diventò assillante, la distanza abissale. “Si è licenziata di sua propria volontà, allo scopo di migliorare la propria condizione”, scrive il poeta in una lettera di referenze.
Da Saba passano, come sporadiche aiutanti, anche Margherita e Malvina, sorelle, legate da una tragedia terrificante. Un secolo fa, nel 1922, a distanza di due mesi, si suicidano entrambe, con il veleno. Saba ne fu sconvolto, tanto da scrivere, ad Aldo Fortuna:
“La mia signorina si è uccisa, due giorni dopo il mio ritorno a Trieste. Era una ragazza ben singolare, ch’io ebbi il torto di nemmeno vedere fin ch’era viva, ma il modo come s’è ucciso m’ha fatto accorto d’aver avuto accanto per sei mesi una creatura che avrei dovuto ammirare e curare”.
In una lirica del 1925, Fanciulle, Saba descrive Malvina come quella che “se adora respinge”. Nate Frankel, Margherita e Malvine erano figlie di Elena Fano, cugina della moglie di Saba. Pare che il poeta insidiasse entrambe le ragazze, in libreria, e si sentisse perciò responsabile della loro morte. Così scrive, molti anni dopo la tragedia, il 5 marzo del 1955 al suo medico, Umberto Levi (la lettera è pubblicata in: Marco Menato e Simone Volpato, Immondi librai antiquari. Saba libraio, lettore e paziente di Umberto Levi, Biblion edizioni, 2020):
“In quella libreria ho sempre convissuto con il senso di colpa di aver spinto a morire due giovani ragazze di cui amai con fervore la loro giovane carne; due sorelle che, per la vergogna di tale sentimento e per aver sottratto dei libri decisero di uccidersi. E per me che ebbi tanta parte in questa loro decisione, giocando sulla loro giovinezza, fu una continua fonte di ansia e di dolore convivere con la loro morte. La libreria fu il luogo della mia morte e ciò è la pena”.
Saba era solito fare dei ricordi un rebus sconcertante, scoscendeva per fraintesi e scorciatoie, “veri sentieri per capre”, dipingendosi malvagio, un genio nella contraddizione. Ogni morte, marcata dalla tragedia, era la sua morte. La libreria era antro della gioia e del peccato, della creazione e dell’abiezione, chissà. “Forse chiuderò”, dice Carlo Cerne, con un lampo negli occhi – d’altronde, non ci sono eredi nei dintorni.