Sette giornate per raccontare le distruzioni del mondo.TINA. Storie della grande estinzione, editore Aguaplano, a cura di Matteo Meschiari e Antonio Vena, copre un arco temporale che va dal 2.450.000.000 a.C. fino al prossimo 2088, spostandosi in un senso e nell’altro tra le epoche e i continenti per offrire il centro della scena ai punti di rottura, di svolta, nel rapporto tra il pianeta e le forme di vita che l’hanno abitato e per le quali è legittimo chiedersi fino a quando, e se, continueranno ad abitarlo. TINA è composto da molte voci, Francesco Mattioni ne è una e si fa portavoce del collettivo durante il nostro conversare sulla storia larga dell’apocalisse (a.c).
Francesco Mattioni, comincio da una fine, quella della prima delle sette giornate di TINA, nel segno del Collasso: “scrivere oggi è definitivamente questione di scrivere nell’età del collasso”.
L’età del collasso è il punto di partenza. Il collettivo TINA ha voluto prendere consapevolezza e responsabilità di quello che Amitav Ghosh, tra gli altri, ha indicato come momento cruciale della storia dell’uomo e del mondo. L’età del collasso è l’antropocene. Con le scelte prese l’uomo ha scritto la sua volontà sul mondo e l’evidenza scientifica e la percezione quotidiana mostrano come questa scrittura abbia condotto la specie umana e l’ecosistema che la comprende verso l’insostenibilità, il baratro o, per fare appena un passo indietro, verso la soglia oltre la quale non c’è più pace antropocentrica. Una scrittura che non tenga conto della contingenza globale e della fine del mondo-per-noi, come dice Eugene Thacker, sarebbe una scrittura eticamente compromessa. Escapismi, mondi edulcorati, le narrazioni che ambiscono a restaurare la situazione precedente alla pandemia in corso, sono manifestazioni di quella che Amitav Ghosh chiama la grande cecità: narrativa e antropologica. Scrivere nell’età del collasso significa provare a immaginare cosa ci sia oltre la soglia che stiamo inevitabilmente attraversando.
La seconda giornata di TINA è nel segno dello shock cognitivo, è qui che si legge la storia del bambino che grida ma che non sa dare nome alla minaccia che si trova nel bosco; il bambino viene ucciso perché smetta di disturbare l’ordine che seppure minacciato per ora tiene. Chi scrive in TINA si sente quel bambino a cui non è rimasto neppure un imperatore nudo da indicare ma solo la nudità di una minaccia nuova?
Lo shock è una situazione terribile e proviene dall’incapacità di comprendere i limiti, i lineamenti della minaccia, o anche solo di darle un nome. Facciamo riferimento al concetto di iperoggetto di Timothy Morton, sicuramente è il costrutto cognitivo che meglio cerca di spiegare l’impossibilità di comprendere la complessa realtà che pure ci sta arrivando addosso, anzi è già qui. La molteplicità dei punti di vista, delle voci e delle storie che vanno a comporre l’atlante TINA cerca di dare una forma a questo iperogetto altrimenti incomprensibile: dalla dimensione del troppo piccolo per essere visto fino a quella del troppo grande per essere accolto in uno sguardo solo. Moltiplicando le prospettive, i piani, le scale, come collettivo TINA cerchiamo di mostrare quello che sarebbe impossibile circoscrivere in altro modo. Cercare parole nuove è fondamentale per il nostro progetto. Per fare un salto alla giornata 7, ne Il fato delle forme, e leggendo da “Rapsodia Cosmica | 2083” al proposito di un incontro con le creature aliene: “Sapevamo che ci saremmo dovuti inventare parole che non esistevano, per le quali ci sarebbe servita la stessa immaginazione che l’Universo aveva applicato nei loro confronti”. Noi di TINA ci sentiamo di essere quei bambini che in una delle bellissime illustrazioni del libro curate da Rocco Lombardi disegnano un campo da calcio giocando tra il relitto di un carro armato.
Nella giornata 4, marchiata con: Il problema di Grendel, c’è la storia “La bambina e il cane | 1932”: 22 righe di inclemenza umana; di nuovo un bambino che subisce la normale barbarie della sua epoca. TINA vuole segnare la fine di ogni furba ingenuità, di ogni comoda inconsapevolezza?
Tutto il libro è pensato come un compendio di apocalissi: retroapocalissi, apocalissi contemporanee e alcune proiettate anche nel futuro. L’intento è liberare il campo da facili ottimismi e evitare quei bias cognitivi in cui purtroppo ancora sguazziamo, soprattutto le negazioni che bloccano la possibilità di immaginare, con tutta la potenzialità e la strumentazione che abbiamo a nostra disposizione, quelli che possono essere i futuri scenari, basati su dati, certezze, conoscenze. Perché ci possa essere un’alternativa appunto deve essere chiaro a tutti dove siamo adesso. Se abbiamo scelto l’acronimo TINA, there is no alternative, è stato proprio per proporci come alternativa a ciò che è stato sancito non abbia alternative.
Nella giornata 7, contrassegnata come detto da Il fato delle forme, si legge di “pedagogia dell’immaginazione”, di “manuali necessari per affrontare i prossimi tempi”. Letteratura come addestramento?
Considerando la struttura di TINA, i corsivi che inframmezzano i racconti sono spesso una specie di istruzioni per l’allenamento, vogliono dare evidenza di come il testo, le finzioni che vengono articolate, sono in realtà delle azioni, ovvero il lettore – che è il vero protagonista del libro – è chiamato a comprendere che non sta semplicemente mettendo in pausa la sua vita per trascorrere del tempo libero divagando, con la sua immaginazione sta costruendo degli strumenti cognitivi, linguistici, immaginativi, per potersi spingere fin da ora dove ancora non siamo. D’altronde è esattamente questa la capacità che ci contraddistingue, fin dai tempi remoti delle prime migrazioni siamo sempre stati una specie in movimento, la stessa cultura nasce in movimento, dall’esperienza dinamica del mondo. Quando l’uomo s’è ritrovato ad affrontare dei paesaggi che non conosceva doveva far riferimento a quanto gli era noto per proiettarlo nell’ignoto che aveva davanti. Spesso Meschiari racconta di come i primi esempi di arte rupestre siano avvenuti quando l’uomo non riusciva ad andare oltre lo spazio già colonizzato – perché impedito da catene montuose o da oceani o da un clima inospitale o da altre specie predatorie – e allora immaginava quello che non poteva ancora esplorare completamente. In TINA l’idea è di allenare una sorta di ascesi dell’immaginazione. Per prepararci. Il collasso più pericoloso è quello dell’immaginazione non più esercitata. Affrontare prove come già ce ne sono state di livello apocalisse senza una letteratura, senza una biblioteca di storie che possa aiutarci nel traghettamento verso questi spazi per noi alieni in questo momento, sarebbe sicuramente più tragico.
Torno indietro di un giorno, alla giornata 3, Spettri (del futuro, del ripetibile), all’interno di “Terne Pitagoriche | 2012” ci viene detto che ci troviamo di fronte a dei micro-romanzi. Che forma hanno le storie di TINA?
Analizzando nel dettaglio ogni frammento individueremmo la molteplicità delle forme: dal microsaggio alla theory fiction, al racconto fantastico, alla ricostruzione cronachistica, alla visione fantascientifica; è un insieme ibrido di vari aspetti. Una formula che possa accomunarli è quella dello scenario secondo la definizione che ne dà Eva Horn in The future as Catastrophe, in cui il collasso è interpretato sia come momento di estinzione che di rivelazione, e che in quanto tale presuppone e sfida uno sviluppo ulteriore, una sorta di iperestizione costruttiva che, prevedendo futuri possibili, contribuisce ad avverare un presente vivibile. È questa la forma di partenza di tutto il progetto immaginato dai curatori Meschiari e Vena e poi esploso in TINA. Microromanzi allora perché offrono delle sinossi, degli spunti di immaginazione da cui possono nascere e diramarsi nel lettore percorsi, espansioni, approfondimenti, magari divergenze, rivolti all’arricchimento di entrambe le parti. Creare scenari significa non focalizzarsi su un protagonista, una trama lineare o dove comunque la successione di causa-effetto è preponderante, ma cercare di portare in primo piano le condizioni di tempo, di spazio e di ambiente che consentono al loro interno che le cose possano andare in un modo e non più in un altro.
Fin dall’inizio abbiamo liberato il campo dai pericoli di narcisismi vari antropocentrici. Come collettivo TINA abbiamo affrontato la questione ben prima della ultima congiuntura stringente, siamo per modo di dire cronologicamente tranquilli da questo punto di vista. Può parlare per noi tutta la preparazione impiegata e banalizzare il nostro lavoro diventa difficile perché ha un fondamento scientifico misurato su studi e raffronti e confronti. La cifra dell’opera è data dalla condivisione assolutamente paritaria di conoscenze, interessi, letture fra chi ha partecipato alla sua stesura, e ho riscontrato da parte dei lettori che questa volontà del libro di voler essere un dono è stata recepita. Il suo voler essere un rimedio al caos attuale raccogliendo e donando storie.
Giornata 5, Archeologie dell’orrore – “In questa fase storica, le zone più morte, più mortali, più ‘trappola antienergetica’ sono le riviste online. Specialmente quelle di alto livello. Quelle davvero serie. Le ragioni sono due: la modalità di archiviazione che non tenta mappature diverse dallo scroll, e l’omogeneizzazione antigerarchica dei contenuti. In poche parole, tutto scorre via e tutto è uguale a tutto”. Quali sono le zone vitali dove si può agire?
Sono tutte quelle zone che ancora s’impegnano per non finire intrappolate. Abbiamo voluto additare un pericolo, uno tra i molti altri su cui è posta la lente d’ingrandimento all’interno di TINA. A essere chiamato in causa è ancora una volta il lettore, in questo caso il suo modo di usufruire delle riviste online: è la chiamata alle armi per l’attenzione e la responsabilità, perché non vengano trascinate via anch’esse durante il veloce scorrimento della pagina. TINA sa di essere e ha voluto essere un testo polemico, cerca di attaccare i rischi cognitivi, narrativi e dell’immaginazione, fa appello al lettore perché non cada nelle gabbie che gli sono disseminate e costruite tutt’attorno. Zone vitali sono quelle di trasformazione che a macchia di leopardo si situano nel paesaggio, cartaceo o online che sia, in cui il lettore riesce a scorgere un percorso possibile che lo possa portare fuori dalle narrazioni tossiche che vanno per la maggiore.
TINA propone “una sorta di educazione premoderna all’immaginazione come tecnologia della coscienza”. Lo spazio della contesa è l’immaginario. Chi sta vincendo?
Loyola non a caso viene citato all’interno del libro. A me vengono in mente gli ultimi fatti d’America, l’assedio a Capital Hill: sono un esempio lampante di quale sia il tipo di narrazione che sta diventando dominante. Interessanti sono le riflessioni di Edoardo Camurri sul tema della lotta dell’immaginazione contro la macchina algoritmica. C’è da tener conto di Internet e delle sue chiusure, degli algoritmi che pur non essendo ancora un’intelligenza artificiale propriamente detta già ci mettono in grande difficoltà tramite la loro capacità di influenzare le nostre scelte, agendo sul nostro immaginario. È una guerra in corso da sempre ma di cui si sta perdendo la percezione. L’immaginazione è una capacità vitale della specie, dacché eravamo cacciatori a oggi, perciò va continuamente alimentata, allenata, destata. Fiction is action!
Qual è il tipo di letteratura che attualmente merita la definizione di narrazione tossica?
Tutta quella letteratura che ancora cerca di rappresentare e narrare il mondo di prima, una realtà e dei personaggi che agiscono secondo desideri e impulsi che fanno parte di un contesto che di fatto già non c’è più: la letteratura fossile, il romanzo neoliberista fatto di treni di trama che non portano più da nessuna parte. Il romanzo dell’antropocene secondo il collettivo TINA non intende soffermarsi esclusivamente sulle conseguenze più palesi del collasso. Per fare un esempio pratico: non si tratta di ambientare una storia durante la pandemia. L’antropocene è un iperoggetto e non può essere circoscritto all’interno di una sola delle sue manifestazioni, sia essa una pandemia al pari di una storia d’amore infelice tra due protagonisti in una Roma da soprammobile. Questi sono epifenomeni, aspetti ristretti di un fenomeno generale. Il nostro tentativo non è focalizzarci sul singolo microevento ma trovare le strategie narrative per rendere visibile tutto quello che sta intorno. L’obiettivo della grande letteratura non è fossilizzarsi su un restringimento di campo che nasconde o addirittura impedisce e nega la visione della realtà in tutta la sua complessa estensione. In TINA la letteratura recupera la volontà di espandere lo sguardo, superando la ripetizione di schemi romanzeschi che magari hanno rappresentato una novità vitale al loro apparire ma che hanno esaurito la loro spinta, al pari di qualsiasi metafora che si è irrigidita in stereotipo vuoto e ha fatto il suo tempo.
Parola di Makhno Boucher “La morte e la sofferenza insensata e di massa che non disturba è un segno del collasso”. Secondo te qual è l’ultima elaborazione del male, la versione più aggiornata?
Possiamo ritornare ai corsivi della prima giornata, al primo di tutti. Chi si chiude nel bunker non avrà futuro. Chi non aiuta chi inciampa sarà schiacciato. L’incarnazione del male attuale è la convinzione che la salvezza sia solo per qualcuno: una sola persona, un solo gruppo, un solo Stato, una sola parte del mondo, una sola specie. È l’illusione che per qualcuno sia possibile salvarsi al di sopra dei cadaveri di tutti gli altri. L’unica possibilità che abbiamo di salvarci è salvarci tutti, quindi fermarci per aiutare i più fragili per primi, altrimenti quel che resta è l’accelerazione verso lo schiacciamento di massa, l’estinzione.