“Tornare alle radici del tempo, dove tutto è cominciato”. Reportage dalla Grecia
Cultura generale
Davide Grittani
“I giovani non sono felici in patria. Cercano l’avventura”. Così scrive J.M. Coetzee in Il polacco, suo ultimo romanzo. Gabriele Del Grande in Il secolo mobile – Storia dell’immigrazione illegale in Europa (Mondadori, 2023), restituisce a ciascuno il legittimo diritto a voler vivere l’avventura della libera circolazione. Il secolo mobile è il pezzo di autobiografia dell’umanità che mancava, riempie un vuoto di racconto troppe volte distorto con retoriche a favore di questa o quella parte che non è mai la parte della realtà per come è. Scrivere riavvicina le parole alle cose, dà un’opportunità alla psiche collettiva di sincronizzarsi con il proprio tempo storico. Raggiungo Gabriele Del Grande mentre è in treno, tra una presentazione e l’altra del libro, in movimento. (a.c)
Un libro di così ampia portata è mosso da una esigenza particolare?
Mi occupo di immigrazione da quando, diciassette anni fa, misi online il blog Fortress Europe dove tenevo la conta dei morti alle frontiere europee. Da allora ho dedicato al tema un decennio di viaggi nel Mediterraneo e tre anni di studio matto sulle carte. Cosa mi spinge? Innanzitutto la passione per l’intreccio della grande storia con le storie dei singoli. In particolare con quelle storie di riscatto e affermazione di sé in cui evidentemente si rispecchia il ragazzo che sono stato, cresciuto troppo in fretta dopo la caduta del padre. Quindi la sfida, mai vinta, di sovvertire le narrazioni egemoni collezionando punti di vista capaci di metterci in crisi.
Nelle prime pagine del libro proponi una visione, o una previsione, del mondo nel 2050: un archivio dei tre milioni e mezzo di migranti che saranno entrati in Europa che potrà essere consultato dai loro discendenti, contenente le immagini in cui sarà possibile riconoscere “l’atavico senso di colpa dei sopravvissuti”.
Quando scrivo di “senso di colpa dei sopravvissuti” mi riferisco all’inconsolabile dolore di un genitore che in mare ha perso il figlio o viceversa. Altro discorso meriterebbe il nostro di senso di colpa: quello degli indifferenti, col quale ci ritroveremo a che fare fra trent’anni quando a Lampedusa sorgerà un museo dell’immigrazione e le nuove generazioni dell’Europa multietnica che accorreranno in visita sull’isola ci chiederanno conto dei 50 mila morti finiti in fondo al cimitero Mediterraneo dal 1991. La mia non è una visione utopica, ma una previsione verosimile basata su quanto è già accaduto. Prendete gli Stati Uniti. Tra il 1892 e il 1954 il centro per l’immigrazione di Ellis Island, a New York, accolse 12 milioni di proletari europei sbarcati dai transatlantici. Erano i viaggiatori poveri della terza classe destinati ai controlli medici. Italiani, russi, ebrei, ungheresi, greci, turchi e armeni. Oggi il 40% della popolazione statunitense conta almeno un antenato tra di loro. Un giorno non lontano accadrà lo stesso anche in Europa. Soltanto allora, forse, saremo in grado di dire «mai più».
Come nasce “Il secolo mobile”?
All’inizio doveva essere un agile pamphlet sulla libera circolazione. Man mano che lo scrivevo però mi sono accorto che per argomentare le mie tesi sul futuro avevo prima bisogno di riportare il discorso sulla mobilità umana in una prospettiva storica. Così ho iniziato a documentarmi su tutto quello che era accaduto prima degli sbarchi. Inseguendo una prospettiva europea anziché italiana. E tentando una serie di incursioni sull’altra sponda del Mediterraneo per tenere insieme le due prospettive: quella dell’im-migrazione e quella delle e-migrazioni. Il risultato è un racconto che parte dal 1914 – l’anno dell’arrivo sul Fronte occidentale di un milione di soldati neri, arabi e indiani dei due eserciti coloniali di Parigi e Londra – e si snoda fino alle odierne crisi delle ONG a Lampedusa, per poi fare un salto nella futurologia demografica ed economica e concludersi con la mia modesta proposta per azzerare gli sbarchi attraverso la liberalizzazione dei visti.
“Il secolo mobile” è il racconto su scala mondiale di cento e più anni di spostamenti migratori, ed è allo stesso tempo il racconto delle strategie legislative nazionali e internazionali volte a impedirli sulla base di cosiddette esigenze securitarie.
Più correttamente direi che è la storia dell’immigrazione non bianca in Europa e della sua progressiva illegalizzazione. Ovvero di come siamo passati dal regime di libera circolazione con le ex-colonie nei decenni del boom economico – quando l’industria europea in piena espansione aveva un’insaziabile fame di braccia da lavoro che la Guerra fredda impediva di fare arrivare dall’Est – fino ai divieti di viaggio di Schengen che dal 1991 incoraggiano l’immigrazione dall’Europa orientale e dall’America Latina a discapito di Africa e Asia ai cui ceti popolari non resta che comprare al mercato nero i biglietti di viaggio per le traversate senza visto. Dopodiché Il secolo mobile non è soltanto una rilettura critica della storia della mobilità tra Africa, Asia ed Europa ma è anche e soprattutto il tentativo di intessere una narrazione alternativa sul presente. Una narrazione che anziché posizionarsi tra le due opposte tifoserie dei porti chiusi versus porti aperti si avventura nella demigrantizzazione del discorso sulla mobilità umana.
I protagonisti dell’ultimo parte della storia sono due: gli Harraga, coloro che bruciano le frontiere, nipoti dei soldati degli Anni Venti e figli degli operai dei decenni successivi, e la parte “più frustrata e impoverita della società europea” alla quale “non è rimasta altra consolazione che l’essere bianchi”. È possibile un loro punto d’incontro che superi le reciproche diffidenze?
L’incontro in realtà è già avvenuto. E da anni. In Europa vivono da generazioni oltre trenta milioni di immigrati non europei e di loro discendenti. Condividiamo le stesse città, le stesse scuole, gli stessi servizi. Ma abbiamo ancora paura di mescolarci. Come se un secolo dopo l’inizio di questa storia l’immigrazione afro-asiatica fosse ancora un fatto reversibile e la bianchezza un asset da difendere. Purtroppo però una parte consistente dell’elettorato europeo, specialmente tra le generazioni più anziane, non ha mai elaborato i fantasmi della società razzializzata di epoca coloniale. I giovani invece sono quelli che mi preoccupano di meno. Specialmente quelli cresciuti nei quartieri mondo delle grandi aree urbane e abituati sin dalla nascita a frequentare la diversità fino a non vederla più.
Giugno 1997, al largo di Otranto la nave albanese Kater albanese viene ribaltata dalla corvetta Sibilla: “Per quella strage di innocenti non sarebbe mai stata fatta giustizia”. Il collegamento immediato è con il naufragio/strage di Cutro, nel febbraio 2023. “Il secolo mobile” è anche un racconto di ingiustizie continuamente rimosse dalla memoria collettiva.
La conta dei naufraghi lungo le rotte del contrabbando nel Mediterraneo supera abbondantemente le 50 mila vittime. Lo abbiamo già detto. Quei morti non avranno giustizia fin quando nelle nostre menti continueremo a considerare legittimi i divieti di viaggio dalle colored areas del mondo. Uso volutamente questo termine. Perché l’apartheid in frontiera è di fatto l’ultima forma di segregazione razziale legalizzata. È come se a livello politico, caduto il muro di Berlino nel 1989 e riaperto il corridoio europeo della mobilità Est-Ovest dopo quarant’anni di guerra fredda e cortina di ferro, fosse in corso un tentativo di riportare la linea del confine lungo la linea del colore. Dal 1991, data dell’estensione del regime dei visti Schengen a tutti i paesi afroasiatici e data d’inizio degli sbarchi, risalire le fosse comuni del cimitero Mediterraneo è proibito per legge. Salvo eccezioni. Ne esistono tre. Una demografica che ammette i bambini di chi già è in Europa. Una utilitarista per i lavoratori di cui l’economia abbia bisogno, purché mantenuti nella precarietà e rimpatriati a fine contratto. E infine una umanitaria per i perseguitati perfetti ai quali l’Occidente democratico non disdegna mai di concedere asilo. Purché lo richiedano a nuoto. E poco importa che a migliaia muoiano in mare e che molti di più ogni anno ricevano insieme al diniego un foglio di via ovvero l’avvio verso una vita di miseria, devianza, carcere e criminalità.
Anni Novanta, nasce il SIS, il Sistema d’informazione Schengen, nel libro è definito il “Grande Fratello dei poveri”. Per fine 2023 è prevista l’entrata in vigore dell’EES, l’Entry/Exit System. L’ultima frontiera da varcare sarà quello della tecnologia?
La sorveglianza delle frontiere alimenta un ricchissimo mercato che da anni coinvolge i colossi dell’informatica, dell’intelligenza artificiale, della robotica e delle tecnologie satellitari. Nel libro faccio nomi e cifre. Nonostante i miliardi investiti tuttavia la frontiera rimane sostanzialmente aperta. Dal 1991 in questo senso non è cambiato molto. La domanda inevasa di mobilità dal Sud globale, ovvero quel milione di richieste di visti bocciate ogni anno dalle ambasciate europee nel mondo, finisce per rivolgersi al mercato nero dei traghettamenti senza visto. Chi vuole partire parte, semplicemente sfrutta i canali illegali anziché quelli previsti per legge.
Il libro la fa finita con gli alibi ufficiali, intercetta le opposte retoriche conservatrici e progressiste e le smonta. Lo sbarco non rappresenta che il 9% degli arrivi illegali. La ricchezza media che aumenta nei paesi di provenienza implica maggiore possibilità di migrazione da parte dei loro cittadini, di potersi pagare il viaggio, all’opposto del motto aiutiamoli-a-casa-loro. Come europei, come italiani, siamo pronti alla verità di un mondo che nei fatti è già cambiato?
In un ipotetico scenario a sbarchi zero, da qui al 2050 si trasferiranno comunque in Europa 15 milioni di persone dall’Africa. La maggior parte delle quali arriverà in aereo con un visto per ricongiungimento familiare. Senza parlare del fatto che il boom economico dei giganti asiatici – Cina e India su tutti ma anche tutto il Sud-Est – e in prospettiva del Sub-Sahara farà esplodere la classe media del Sud globale nei decenni a venire spingendo sempre più persone a investire nella propria mobilità internazionale, esattamente come fanno oggi i figli dei paesi ad alto reddito. Questa è la realtà. Possiamo decidere di non guardarla e continuare a vivere di nostalgia per i gloriosi tempi andati. Oppure disancorare le nostre narrazioni dai porti sicuri del passato. Le nostre leggi su visti, immigrazione e asilo risalgono agli anni Settanta, la preistoria della mobilità globale, quando la principale preoccupazione della politica era il contenimento delle nascenti minoranze non bianche. Così come le nostre paure di mescolarci con le minoranze non bianche risalgono alle narrazioni coloniali e razziste sul suprematismo. Nel frattempo la realtà è andata avanti. Già oggi il 10% della società europea è figlia dell’immigrazione non bianca. In futuro lo sarà ancora di più fino a quando smetteremo di avere paura di mescolarci perché ci accorgeremo che sarà già accaduto. Soltanto allora il consenso sulla libertà di movimento aumenterà. Perché metà degli europei vivranno la frontiera non più come una protezione bensì come un’inutile barriera burocratica che li separa dai pezzi di famiglia al di là del confine.
Ida Siekmann, infermiera, 59 anni; Gunther Liftin, sarto, 24 anni. È il 1961. Sono le “prime due vittime dell’immigrazione clandestina di Europa”, morte nel tentativo di oltrepassare il Muro di Berlino. Quale credi sia l’ultimo muro o confine che dovrà cadere perché smettano di esserci vittime del divieto di movimento?
I muri più difficili da abbattere sono quelli del nostro immaginario. Le frontiere geografiche, per quanto sia diventato pericoloso e costoso attraversarle, di fatto sono già aperte. La sola funzione dei dispositivi di controllo al confine è simbolica. Sbarchi, respingimenti e rimpatri ci raccontano chi sono gli altri. E di conseguenza chi siamo noi. E quella distinzione razziale, religiosa e classista tra il noi e il loro ci accompagna in ogni dove. Dai cancelli delle scuole ai locali della movida. Scritta sulla pelle scura dei corpi migranti. Sulla linea del velo. O più banalmente sugli abiti vecchi della miseria. Decostruire la narrazione della frontiera nella propria testa è la cosa più difficile e al tempo stesso più liberatoria che ciascuno di noi possa fare. Per iniziare basta porsi in ascolto, procurare un incontro, allargare le proprie compagnie, viaggiare, anche solo in un libro o in un disco, fare l’amore. Barriere e rotoli di filo spinato cadranno di conseguenza.
*L’intervista è realizzata da antonio coda