V’è un quid di profondamente sensivo e abissale nella poesia isterica di Sylvia Plath. Che essa abbia la sua profonda scaturigine in una forma tesa di nevrosi è cosa frusta a dirsi; ma se la nevrosi subentra a mezzo di una rimozione, si può affermare che questa poetessa compie con le proprie parole atti di autocoscienza che penetrano l’intimo della sua mente (parimenti del suo corpo) esattamente come se il rimosso tornasse a reclamare la sua parte di vita, vissuta o riflessa, mediata o meno, nella forma esatta di una cartografia dell’anima e del suo soffrire indicibile.
Sembra che la Plath sia elargiva di un cubismo poetico e dell’anima, orbitando con lo sguardo – e recuperando alla poesia il tempo reale del soqquadrare – attorno a oggetti raggelati, entità simili a grumi di sangue, patendo tutta la permeabilità del proprio corpo femminile e della propria anima dolente che accoglie in sé la violenta impellenza della vita nel gesto stesso di rifiutarla perché soggetta a guasto e cancrena.
La purezza, l’incontaminato non sembrano essere appannaggio di identità e corpi virginali, ma la prerogativa dolorosa di una fisionomia interiore messa a dura prova dalle contaminazioni e dalla natura ibrida e imbastardita dell’esperibile. Le parole sono precise come compassi, si assiste alla prassi di un esame autoptico della realtà, e la voce inascoltata di essa torna come una eco esattamente come il rimosso di cui accennavamo, ma in forme indecifrabili, non sussumibili a impalcature di pensiero e definizioni univoche: è l’inesprimibile che si esprime attraverso un incessante slittamento dalla concretezza all’astrazione, dall’astrazione al dissolversi delle coordinate percettive e cognitive in un collassare del sistema donna-vita.
Tanta parte in questa poetica ha lo sguardo, sia come feritoia di un’anima, spesso violata, sia come campo visivo, fisico, del circostante. E il circostante parla una sua lingua, che, per quanto astrusa e inattingibile, si incontra, romanticamente, con la natura di una interiorità che non smette l’interrogarsi. Senonché l’interrogarsi diventa aporia, e gli epistemi dell’esistere e del suo doppio appercettivo vengono a mancare se non sanguinano, vengono a essere inattingibili quando troppo attingibili, ignoti nel movimento stesso del rivelarsi attraverso forme che reclamano appunto attenzione.
Gli elementi naturali sono tutt’altro che partecipi della vicenda umana di questa donna, e quand’anche fertili, come il suo corpo, e procreatori, si agita nella loro essenza qualcosa di inesprimibilmente distante e raggelato. La compulsione stessa della Plath a sottrarsi alla vita è un fare che inscena la propria discordia col reale, un languore flottante tra le cose e le persone come in una placentare assenza e tentativo di sedazione, o la frattura, non più elasticamente riassorbibile, che crepa la vita restituendole tutta la sua fragilità esposta. Ma accanto all’aspra luce in cui sono calate le entità fisiche e non, v’è una insulare delicatezza nel registrare noti dettagli familiari addomesticati da un’assidua abitudine, trasponendoli nel miracolo di un avvenire lene e come stemperato. Qui garbo e delicatezza si impastano a elementi sanguigni e scabrosi, colori e percezioni tattili orticanti.
La Plath deve in qualche modo digerire il mondo, assimilare una realtà pur nemica, e restituirla alla parola nella forma protoplasmatica e infertile di un dato semplice e isolato, non ulteriormente scindibile (come un componente chimico che se mischiato al resto determinerebbe una deflagrazione).
Qual è l’ossessione di questa voce poetica estrema ed elegante, puntiforme e netta come cristallo? Pare che alla base del suo essere donna vi sia la mancata accettazione di un ruolo subalterno e l’invidia stessa presso un diverso statuto di libertà e identità consegnate dalla morale vigente all’uomo come suo proprio appannaggio. Emerge uno spirito inquieto almeno quanto autarchico, un estro analitico che scompone e ricompone ogni datità, fattuale o meno, secondo un disegno che trasuda espressionismo linguistico e cognitivo. Si oscilla, all’interno di questo territorio, tra l’impossibilità di essere partecipi della vita e il desiderio di sentire fortemente e fortemente volerla. Prendere congedo da essa, più e più volte e senza riuscirci, sembra essere un gesto di reviviscenza dell’abbandono insito nell’atto dell’amore carnale. Perché la Plath è posseduta dalla morte almeno quanto dalla vita, dall’amore almeno quanto dalla sua sterile controparte. Esprime senza vaghezza di contorni, la precisione di un pendolo tra il tentativo di interpretarli e di rifiutarli, di esperirli e di respingerli.
La sua poetica è un tessuto vivo in suppurazione, è corpo essa stessa e in quanto tale corrotto e corruttibile, fragile e miracoloso, là dove il miracolo di vivere è quello di morire ogni giorno e rinascere non tanto alla vita quanto alla testimonianza estenuata della sua dolente ricerca di cure e attenzioni, come di senso. Tutto reclama sguardo, tutto è punteggiato di vivore, vividezza e evidenza, e tutto è cieco e nascosto come un ventre.
Se la poesia della Plath è eteroclita e imparagonabile a nulla di simile, lo è perché è donna nonostante tutto, perché è femminina nel prodigarsi a rivendicare acutamente una via d’uscita all’incanto delle fiabe e a quello di donne ricondotte a caratteri e prerogative da fiaba.
La realtà attraversa come una lama questa donna forte e la ferita che lascia è ciò che ella rimuove come la parte di sé che non può che essere esposta: fragile e sanguinante. V’è una durezza diamantina nella Plath, una forza tutt’altro che lene e femminea, e una crudezza impellente come un grido… Perché lei, e la sua poesia con lei, rinascono a nuova vita senza il miracolo della fertilità, come per gemmazione da un’identità la cui eclissi è solo un abbaglio: essa non si ottenebra ed è sempre presente e iperconnotata, satura di domande e percezioni, stupore e nausea.
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I tulipani
I tulipani sono troppo eccitabili, è inverno qui,
guarda quanto ogni cosa sia bianca, quieta e innevata.
Imparo la pace, mentre si posa quieta a me vicina
come la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e i vestiti alle infermiere
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Hanno appoggiato la mia testa tra cuscino e bordo del lenzuolo
come un occhio fra palpebre bianche che non si chiuderanno.
Stupida pupilla, di tutto deve fare incetta.
Le infermiere passano e ripassano, non disturbano,
passano come i gabbiani verso terra nelle loro cuffie bianche,
facendo cose con le mani, uguali l’una all’altra,
così che è impossibile dire quante siano.
Il mio corpo è un sasso per loro, vi si apprestano come l’acqua
ai sassi sui quali deve scorrere, levigandoli garbata.
Mi danno il torpore con i loro aghi luccicanti, mi danno il sonno.
Adesso ho perduto me stessa sono stanca di bagagli –
la mia borsa di pelle come un nero portapillole,
mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia;
i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti.
Ho gettato cose in mare, io cargo di trent’anni
tenacemente attaccata al mio nome e indirizzo.
Hanno strofinato via tutti i miei affetti.
Impaurita e denudata sulla plastica verde della barella
ho guardato la mia teiera, il comò della biancheria, i miei libri
affondare lontani, e l’acqua arrivarmi sopra la testa.
Sono una suora adesso, mai stata così pura.
Non volevo fiori, volevo soltanto
sdraiarmi a palme in su completamente vuota.
Come si sia liberi, non avete idea quanto liberi –
la pace è così grande che abbaglia,
non chiede nulla, un’etichetta col nome, qualche bazzecola.
Con questa, alla fine, chiudono i morti; li immagino
masticarsela come un’ostia da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi feriscono.
Anche attraverso la carta da regalo li sentivo respirare
piano, attraverso la bianca fasciatura, come un bimbo mostruoso.
Rossastri parlano alla mia ferita, le rispondono.
Sono traditori: sembrano ondeggiare, anche se mi tirano giù,
scompigliandomi con le loro lingue inattese e il colore,
una dozzina di rossi piombi intorno al mio collo.
Prima nessuno mi sorvegliava, adesso sono sorvegliata.
I tulipani si voltano verso di me, e la finestra dietro
dove quotidianamente la luce si allarga e si assottiglia,
io mi vedo, piatta, ridicola, ombra di carta ritagliata
fra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani consumano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
pulsava, respiro dopo respiro, senza scompiglio.
Poi i tulipani l’hanno riempita di un gran rumore.
Ora l’aria spinge e gli vortica attorno come un fiume
spinge e vortica attorno a una macchina rosso-ruggine affondata.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
giocando e riposando senza impegnarsi.
Anche i muri sembrano riscaldarsi tra loro.
I tulipani dovrebbero stare dietro le sbarre come bestie pericolose;
si aprono come la bocca di un grosso felino africano,
ed io mi accorgo del mio cuore: apre e chiude
la sua ampolla di rossi boccioli per vero amor mio.
L’acqua che assaggio è calda e salata come il mare,
e viene da un paese lontano come la salute.
Sylvia Plath