Finì per incarnare i caratteri del suo segno, tra i reami di un’araldica violenta. Virginea e selvaggia, evanescente e brutale, capace nella rinuncia, bellissima, a tratti asessuata, intimidiva, era molto ammirata. Pareva poter uccidere – ed essere sotto minaccia. Invincibile e fragilissima. Degna di lode costante, a distanza.
Nata a Montevideo nel 1906, da famiglia abbiente – il padre, Francisco Soca, era medico insigne e deputato –, battezzata a Parigi, Susana Soca eccelleva nelle lingue – passava dall’italiano all’inglese, dal tedesco alle lingue classiche; imparò il russo per poter leggere dal vero Boris Pasternak – e nella capitale francese realizzò l’opera per cui, di fatto, è nota al pubblico: la rivista “Les Cahiers de la Licorne”. Uscita a Parigi dal 1947 al 1948, lungo l’arco di tre numeri, si trasferì a Montevideo dal 1953, come “Entregas de la Licorne”. La rivista, elegantissima, recava in copertina un liocorno impennato, struggente e feroce, disegnato dall’artista francese Valentine Hugo. Nel primo numero della rivista pubblicarono, tra gli altri, Jorge Luis Borges, Jules Supervielle, Felisberto Hernández; Maurice Blanchot, Pablo Neruda, René Daumal. Negli anni salirono in sella al liocorno le grandi firme dell’epoca: Karl Jaspers, Thomas Mann, Dylan Thomas; Martin Buber, Thomas Merton, Jean Cocteau, René Char. Su “La Licorne” – come era detto in gergo – pubblicarono anche Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Elsa Morante.
Susana Soca sapeva affascinare: pare che Picasso l’abbia ritratta – l’opera, di cui possediamo una fotografia scattata nel 1943, è scomparsa –, Henri Michaux la amò, ricambiato con garbo e fermo distacco, per tutta la vita. Diversamente, lei adorava Pasternak. Era volata in Russia per incontrarlo: i tempi erano impenetrabili. Gli scrisse, allora, il 21 ottobre del 1956, dal National Hotel di Mosca, una lettera che pare un appello:
“Parto ora per Vienna dopo averti chiamato senza successo a un numero indicatomi da un giovane docente di lingua spagnola dell’Associazione degli scrittori russi… Il pensiero di averti appena sfiorato mi sfinisce. Sei la sola persona che avrei voluto vedere a Mosca. Scrivo anch’io, e la tua poesia è per me di grande importanza: in un tempo in cui la poesia pare contare così poco, bisogna stare accanto a chi le dedica la vita. Armand Robin, il tuo traduttore, mi ha parlato molto di te: vorrei chiederti due o tre poesie per la rivista che dirigo”.
Pasternak fu sorpreso dalla lettera, la ritenne salvifica. Inviò due testi – Senza titolo e In ospedale – pubblicati nel numero 9-10 della rivista, nell’agosto del 1957; desiderò spedire alla Soca, attraverso la mediazione di Isaiah Berlin e della sorella, Lydia, che abitava in Inghilterra, il suo scritto autobiografico. Alcuni credono che la Soca sia stata depositaria di alcune pagine del Dottor Zivago, che Pasternak, consapevole dell’impossibilità di pubblicare in Unione Sovietica, voleva mettere in salvo. Una parte della lettera – la sola, all’interno di un epistolario mutilo, a tratti enigmatico – che Pasternak invia a Susana è pubblicato su “La Licorne”:
“Ma questo è nulla, il riflesso di un refolo, una sciocchezza. Ho la certezza che davanti ai nostri occhi stia nascendo un’era totalmente nuova, che si sviluppa, giorno dopo giorno, senza che ce ne accorgiamo. Nuovi compiti essa esige da noi, che riguardano le coerenze del cuore e la dignità dell’uomo: essa si sviluppa in silenzio, non avrà una inaugurazione ufficiale, adatta”.
Sono temi cari a Pasternak – espressi, in modo analogo, nel 1958, a Nina Tabidze (e ricalcati nel “Meridiano” che accoglie le Opere narrative di Pasternak) –, insieme alla rassegnata certezza di “essermi guadagnato una reputazione davvero eccessiva basata sui primi scritti, mentre i lavori più recenti, dal significato del tutto diverso, continuano a essere ignorati”.
Perché il liocorno sia tale, occorre lo sfrigolio dell’invisibile, la tragedia abbagliante: soltanto lo spettro può diventare icona. Susana Soca fu l’ultimo incontro esotico ed estremo nella vita di Pasternak. Li univa, tra l’altro, l’amore – quasi ovvio, in quella cerchia di affini – per Rainer Maria Rilke. Al poeta, la Soca aveva dedicato uno dei suoi primi lavori, un saggio, pubblicato nel 1932 sulla rivista “Alfar”. Lo diceva “costrittore di città di nebbia”, “rigoroso orafo travolto dall’esaltazione interiore, che rivela senza svelare”. Amava I quaderni di Malte Laurids Brigge, la fiera lista delle “abbandonate” perché “in loro il segreto è divenuto intero”. Susana Soca, appunto, diventò il suo segreto. Nei primi giorni del 1959 la madre, adoratissima, pretese che la figlia rientrasse a casa. Susana era a Parigi. Aveva già un biglietto aereo per il ritorno – lo cambia. Affida i propri documenti più preziosi alla segretaria, presentendo, forse. Il volo Lufthansa 502 dell’11 gennaio si schianta poco prima di atterrare a Rio de Janeiro: tutti i passeggeri imbarcati muoiono. Susana Soca diventa, da allora, un liocorno.
Nel 1961 “Entregas de La Licorne” sigilla la propria missione stampando un numero monografico, “Homenaje a Susana Soca”. In tanti concorrono con un pensiero, un cartiglio, un ricordo. Tra gli altri, testimoniano la loro amicizia Marcel Jouhandeau, Maria Zambrano, Lanza del Vasto (“Penso a voi, Susana, come uno di quegli uccelli che volano rasoterra, sulla spiaggia, certi di trovare, tra i meandri delle sabbie, una stella”), Giuseppe Ungaretti (“Incontrai Susana Soca a Roma, poco prima della sua morte. Non l’avevo mai vista tanto radiosa: la sua bellezza, tuttavia, era raffinata e misteriosa”), José Bergamin. Boris Pasternak era morto l’anno prima; naturalmente c’è un Souvenir de Susana Soca firmato da Henri Michaux. Il quaderno è aperto da un testo di Emil Cioran, Elle n’était pas d’ici (poi raccolto in Esercizi di ammirazione):
“L’ho incontrata due volte soltanto. È poco. Ma lo straordinario non si misura in termini di tempo. Fui conquistato dalla sua aria d’assenza e di spaesamento, dai suoi sussurri (lei non parlava), dai suoi gesti incerti, dai suoi sguardi che non aderivano agli esseri né alle cose, dal suo portamento di spettro adorabile. Chi è lei? Da dove viene?, era la domanda che si sarebbe voluto rivolgere a bruciapelo. Non avrebbe potuto rispondere, a tal punto si identificava con il proprio mistero o riluttava a tradirlo. Nessuno saprà mai come faceva a respirare, per quale smarrimento cedeva ai sortilegi del fiato, né che cosa cercava fra noi. Quello che è certo è che non era di qui e condivideva la nostra caduta soltanto per educazione e per qualche curiosità morbosa. Solo gli angeli e gli incurabili possono ispirare un sentimento analogo a quello che si provava in sua presenza. Fascinazione, sovrannaturale malessere! Nell’istante stesso in cui la vidi, mi innamorai della sua timidezza, una timidezza unica, indimenticabile, che le conferiva l’aspetto di una vestale stremata al servizio di un dio clandestino oppure di una mistica devastata dalla nostalgia o dall’abuso dell’estasi, per sempre inadatta a recuperare l’evidenza!”.
Da questo testo, di drastica bellezza, si capisce la distanza, ad esempio, tra Susana Soca, arenata nel pudore, angelica, e Victoria Ocampo, audace benefattrice di vari intellettuali d’Europa. A Susana Soca, Borges dedica una poesia, poi accolta in El hacedor (1960; qui nella versione di Tommaso Scarano):
Con lento amore contemplava i toni
diffusi della sera. Le piaceva
abbandonarsi alla curiosa vita
dei versi o alla complessa melodia.
I grigi, non il rosso elementare,
tramarono il suo fragile destino
fatto a discriminare, esercitato
all’incertezza ed alle sfumature.
Senza addentrarsi in questo nostro incerto
labirinto, scrutava dal di fuori
le forme e l’agitarsi tumultuoso,
come quell’altra dama dello specchio.
Dèi che dimorano oltre la preghiera
l’abbandonarono a una tigre, il Fuoco.
La morte di Susana Soca rivelò una seminagione di versi: pubblicava gli altri, Susana, eleggendo se stessa alla latitanza. Nel 1959 le Edicion “La Licorne” pubblicano En un pais de la memoria; nel 1962 editano Noche cerrada. “Il poeta è l’essere che alla cieca, senza tregua, cerca di descrivere ciò che percepisce nella veglia, nei piani moltiplicati del sonno. Si avvicina, con strategia furtiva, al silenzio delle cose, adatta il linguaggio ai bordi del silenzio”. C’è chi, in poesia, incarica le cose di bende, e chi toglie le bende al corpo ustionato, scorticato, ad orizzonte d’osso. L’ultima poesia di Susana Soca, Volando bajo sobre un paisaje ruso, è dedicata “a Pasternak”.
“Nella violenza delle cose ritorna
una violenza nascosta per anni
dietro specchi che furono un fuoco
serrato per anni in un antico poema”
La poetessa vuole scuotere, riscuotere, scotennare, “sradicare l’albero/ entrare nella pelle della betulla”. Era affascinata dal mito del labirinto, Susana, dalla notte, dalle grandi solitarie, Arianna, Euridice.
*
Salmo della notte
Notte ansimante, bassa. Ciò che muore non ha voce. Notte che afferra le ceneri della neve. Nelle città imprigionate.
Devi toccare la tua destra per conoscere il cammino dell’acqua. Soltanto l’acqua separa il bosco nero dalla città immobile e bendata, su cui serpeggia, dimenticato, un merletto di luna.
Notte che non dorme. È ferma. Tarda mattina priva di alba. La risata di uno scolaro fende il freddo. Poi, un fischio. Come il volo di colombe sotto minaccia.
Notte intoccata che si inclina sui parapetti deserti. Tremore di secoli sulle pale della tramontana. Prolungata voce di tamburi assordanti.
Le sentinelle vegliano sulla neve come orsi in cattività.
Nella prigione, impara a camminare, al buio. Nessuno si aspetta ancora nulla da lei.
Maggio, 1941
*
Notte serrata
Posseduta da una notte lugubre.
Notte serrata sulla serrata fronte,
notte vasta, che ci insegue di giorno
misurata nel calcolo della propria ombra.
Ossa scintillanti del dolore appena sognato:
il germe inesausto dell’incubo
apre frutti imprevisti
mentre il sogno misura i cerchi
per esercizi di cattività solitaria.
Notte predatrice e mai predata.
Grappoli di buio sulla mia bocca
odorano di pioggia, aromi caldi,
rapido passaggio di uccelli
acqua che incontra le piante
entra nell’orecchio e non ha delta.
Notte angusta e senza spazi
notte della donna
che non toccherà più la mandorla del suo viso
lucidato dai sogni degli uomini.
Più crudele dell’amore che crolla ogni giorno
il sogno si ritrae, inservibile.
Nessun gesto separa la bocca
da chi si inchina a pascolare, nell’oscurità.
Susana Soca
*Prossimamente, è prevista per le edizioni Pangea / Magog la pubblicazione di testi e poesie di Susana Soca