13 Febbraio 2023

“Come resistere al tuo amore?”. L’epopea di Sayat-Nova, il bardo armeno

Nel 1969 il regista sovietico di origini armene Sergej Paradžanov realizza Sayat-Nova. Il film – passato anche come Il colore del melograno – è un capolavoro: la storia di Sayat-Nova, tra i grandi poeti armeni di ogni tempo, vissuto nel XVIII secolo, è realizzata con sfoggio poetico nobile, a penetrare nel cardio notturno. Pare che gli estremismi tecnici di Buñuel e di Fritz Lang, l’esperienza di Ėjzenštejn, si mescolino all’arte suprema della miniatura, ai memorabili salteri d’oriente, preghiere istoriate tra finimenti d’oro. Sperimentalismo primordiale, futuro che si avvera per tradizione. Il film, restaurato nel 2014 dalla Cineteca di Bologna, mostra una poetica prima che una storia: allinea simboli di eclatante bellezza, fa della fotografia un sonetto, della regia il regicidio della ‘trama’, verbo che non subisce la tirannia didascalica del ‘fatto’. Film che si sfa in libro. Così ne scrive Martin Scorsese:

“Guardare Il colore del melograno, o Sayat Nova, di Sergej Paradžanov è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. A un primo livello di lettura, il film narra la vita del poeta armeno Sayat Nova. Ma è soprattutto un’esperienza cinematografica dalla quale si esce recando con sé immagini, reiterate movenze espressive, costumi, oggetti, composizioni, colori. Sayat Nova visse nel Settecento, ma le immagini e i movimenti del film sembrano venire dal medioevo o da tempi ancora più antichi: i tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli. È un film assolutamente unico”.

Il film coincise con la fine professionale, per così dire, di Paradžanov: rompeva i canoni del ‘realismo socialista’. In breve, accusato di furto d’arte e di omosessualità, il regista fu costretto in un campo di riabilitazione. Lo scarcerarono dopo pressioni condotte anche da autorevoli intellettuali del tempo, capeggiati da Louis Aragon. L’interesse dell’Unione Sovietica verso l’Armenia, specie di diamante inafferrabile, cultura che l’incrudelimento della Storia ha reso smeraldo, è testimoniato, tra l’altro, da un lungo reportage di Marietta Šaginyan nell’Armenia sovietizzata, dai suoi studi sull’arte armena. In quel caso, la Šaginyan, scrittrice di origini armene, fedelissima al partito, tenta di inglobare l’alterità armena nei ranghi russi: esotismo al tempo dei Soviet.

Ultimo grande ashugh – poeta-bardo, trovatore caucasico, cantante, musicista, innografo, sciamano del verso – Sayat-Nova si esprimeva in georgiano, armeno, persiano. Il suo è canto d’amore che sfocia nell’ambito-ambone del sacro: si sposa, ha figli, termina la sua vita imboccando il sacerdozio. Viene martirizzato nel 1795, durante l’invasione dei Persiani. Il Canzoniere armeno di Sayat-Nova è stato tradotto da Paola Mildonian per le Edizioni Ariele nel 2015; in Francia le Odes arméniennes sono tradotte da Serge Venturini per L’Harmattan, nel 2006. Così scrive Antonia Arslan, parlando del Canzoniere armeno:

“Da un suo poema autobiografico si dipana un racconto straordinario: dopo l’apprendistato come sarto, diventa mercante (o militare) e intorno ai vent’anni viaggia in Abissinia e in India, ma, curiosamente, impara a scrivere solo a sedici, ed è a venticinque che ha la sua prima rivelazione di estasi poetico-amorosa, scoprendo il suo vero talento. È un poeta originale e complesso, che riassume in sé l’ultimo fiore dell’arte trobadorica del Caucaso, giocando su un articolatissimo sistema di rimandi linguistici, strofici, poetici verso tutte le tradizioni orientali”.

Così invece Serge Venturini:

“Un occhio da incisore arde nello stile di Sayat-Nova. Sguardo cupo di pittore, che osserva i mercanti di formaggio, la delicatezza dei frutti, il vino colore del sangue, quasi nero. Viveva come un uomo separato, separato dagli altri uomini, irriducibile… era un uomo braccato dall’amore e dalla musica, dalla poesia e dagli angeli, scardinato fino alla follia, fino a quelle folli labbra viola, che scintillano… Uomo torturato: spine, sofferenze e sangue gravitano nel suo dire. Rosso e nero sono i suoi colori. Incontriamo, così, i commercianti di diamanti, gli orafi-gioiellieri, i mercanti di seta, mani sconosciute che si tuffano in vasti sacchi di spezie. Respiriamo l’odore del caffè e dello zafferano, della cannella, dei chiodi di garofano, del pepe, della noce moscata e dello zenzero. Vigore e crudeltà caratterizzano la sua opera”.  

Sembra, passeggiando da estranei tra le stanze della letteratura armena, che l’Armenia sia una condizione del cuore, esattezza d’esistenza, qualcosa che ci è stato conficcato in viso. Da Ashtarak, durante il suo Viaggio in Armenia, il poeta Osip Mandel’štam scrive:

“Voglio conoscere il mio osso, la mia lava, il mio fondo sepolcrale… è per questo che mi sono volto allo studio dell’antica lingua armena”.

Ogni lingua è ossea, ha un esoscheletro: alcune dicono il giaciglio, il punto senza frattura, che non ha separazione.

***

Finché son vivo e a te m’immolo, che posso fare, amore?
Versare lacrime, soffrire, sospirare, per te penare, amore.
Hai detto: «Sono una gazzella». Lascia che ti contempli, che ti ascolti, amore.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.

Mazzi di fiori i capelli, pistacchio le labbra, è l’ora beata,
vieni andiamo nel prato, giungiamo al laghetto, delle gazzelle è l’ora,
proteso alla rosa è l’usignolo, la rosa si protende alla vigna, è l’ora del diletto.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.

Andiamo parlando vicini, la rugiada della sera bagnai cespugli,
intoniamo la melodia, il tulipano, la rosa si sono dischiusi nei loro colori,
Il giardino è pieno di gigli, giacinti, usignoli in esilio.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.

Perfetta nelle tue forme, simile in tutto al ritratto di Leila,
per te ho perso le forze, amore, sulla siepe son rimaste impigliate le tue chiome.
Il giardino è nel suo splendore, sui rami della rosa l’usignolo dorme.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni…

Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, flessuoso ramo di cipresso,
hai una tazza nella tua mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo.
Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino.
Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni.

*

Tracciato col calamo il tuo ritratto, tramuti in mille colori il tuo aspetto,
il neo si nasconde sul tuo volto, se cali la cortina dei capelli.
Sei dischiusa come rosa rossa, e fai le tue rime con l’usignolo,
come oro si dispongono i tuoi denti, delle labbra fai pietra di paragone.

Il tuo volto, come luna nuova, cresce e in cerchio si perfeziona,
non devi inumidire la tua treccia, senza avvolgerla s’arriccia la tua chioma,
ed è così che chi ti vede, finisce per smarrire il proprio cammino.
Entri nel convito e come fossi usignolo gioia diffonde il tuo trillo.

Città e città, villaggi e villaggi, vengono a vedere il tuo volto,
il morente da te riceve a guarirlo il balsamo che rende immortali.
Tintinni come lama d’argento quando ti muovi dal tuo posto.
Che t’importa di santur o kamancià, se fai risuonare i tuoi strumenti?

Nel tuo seno nutri le rose, le viole, il giacinto e il giglio.
A che serve il giardino al tuo signore? Il tuo profumo è quello del basilico.
Hai spiegato come vela i tuoi capelli, e li attraversa il vento,
il mondo è un mare, tu la nave che lo percorre e si culla sulle sue onde.

Se pur ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te che in minima parte.
Ninfea, fiore dei mari, viola che si dischiude al vento.
Come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova.
Chi t’ha visto più d’una volta dissennato hai reso e demente.

Traduzione di Paola Mildonian

*

Chiamo Anna il mio rubino
giunto dalle miniere del Badechkhan.
Forse morirò di nostalgia
mozzeranno la mia lingua-usignolo.
Che i nemici soffrano, che gli amici siano salvi.

Indossi una magnifica seta viola, Nazanie,
la fronte è decorata con un nastro d’oro
d’oro le forbici che afferri:
tagliano i tuoi capelli tortili.

Ti chiamo Anna, mia Anna
in odi, ballate e versi.
Forse non invano hanno aperto
una fessura tra le tue ferite.
Nelle Scritture il giusto è benedetto.

Finiture degne di un nobile
cespuglio di rosse, usignolo folle:
le tue ciglia sono dorate, meravigliose.

Ti chiamo Anna, mia delizia:
sei tu che sussurri: Pugnalano
il cuore degli amanti senza ragione.
Neppure un re accetterebbe di perderti.

*

Non ho nulla di cui sospirare
finché esisti e vivi per me.

Tu, ciborio d’oro
alcova di acque eterne.

Mi siedo alla tua ombra:
sei una tenda di seta.

Sul crinale dei miei crimini
per potermi giustiziare:
per me sei il sultano, sei il khan.

Sottile cipresso la tua vita
seta d’Oriente la tua pelle:
lingue e labbra la mia delizia,
i tuoi denti sono diamanti
pruni con gemme d’oro
calici i tuoi occhi scuri.

Tu sei la perla
puro rubino d’Asia.

Posso resistere a ogni dolore
perché hai indurito il mio cuore.
Per te le lacrime si mutano
in sangue e la mente è immonda.

Tu sei il nuovo giardino
recinto assiepato di rose.

Come un usignolo mi volto
mia meraviglia d’amore.
Il tuo amore mi ubriaca:
sono sveglio, ma il cuore
levita nel sonno.

In questo mondo, ognuno
ha la sua parte, ma il mio
cuore rimane famelico.

Nulla esiste per me al mondo
tranne te, cerva e giumenta
torcia che proviene dal mare.

Parlami almeno una volta
avvicinati a Sayat-Nova, l’amico.

La terra abbraccia la tua ombra:
sei splendida al cospetto del Sole.
Sei il fiore purpureo dei campi
il giglio dei prati, per me.

Gruppo MAGOG