04 Settembre 2018

Siamo quello che la macchina fotografica immortala: da Bresson a Brunelli, gli 11 fotografi di cui non potete fare a meno

Martedì 28 agosto, caffè in pausa pranzo. San Marino, bar alla porta “alta” della Paese. Vedo la Giulia, 18 anni, lavora in un hotel. La invito al tavolo: parliamo come sempre. Ha un nuovo moroso, o meglio, è tornata con il suo ex. Mi fa vedere alcuni selfie che il ragazzo si è fatto e che le ha inviato. Non tutti però, alcuni, mi dice, “non me li può mostrare perché sono intimi”. Li osserva e si lecca i baffi, anche se non li ha. Me ne mostra alcuni, quelli meno scabrosi. Palestrato, tatuato. E soprattutto edonista. Categoria POV, per dirla alla maniera più moderna.

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“Un po’ alla Robert Mapplethorpe” le dico, ma senza malizia: potrebbe essere ampiamente mia figlia, la Giulia, 25 anni di differenza. Rimarco quel “un po’ alla”, per dare sfoggio del mio fisico non da culturista ma da culturale. “Map chi?” ribatte subito. Si apre una voragine generazionale: il mio mondo a pellicola, fatto di mostre e letture, abbarbicato e inturrito nei miei 43 anni, e il suo, immediato e di rapido consumo, figlio dell’età che si porta addosso. Con tutta l’energia e i sogni moderni dell’età sua contemporanea.

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Tra pochi giorni, a metà settembre, si apre il “Si Fest” di Savignano sul Rubicone, tradizionale appuntamento con la fotografia. Ci andrò, ovviamente, ma senza grandi slanci: le immagini di oggi non mi piacciono. “Fermare” il quotidiano che è anche “terzo paesaggio” è un esercizio di stile deciso a tavolino dalle agenzie: “Oggi devo promuovere questo artista lì da voi, poi tu me ne dai uno dei tuoi, lo espongo da me, magari lo pompo con i media locali, e facciamo patta”. Sono i fili invisibili delle relazioni lavorative inurbanizzate. Interessi e conoscenze al primo posto, a discapito della qualità poetica.

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“Te sei vecchio: ti piacciono i classici. La fotografia è cambiata, oggi non è più quella di Cartier Bresson o di Capa. Oggi la fotografia si chiama…” e giù una lista di nomi a me quasi tutti ignoti. Lei è ben incesellata nella manifestazione romagnola. A tal punto che davanti alle immagini di “Genesi” di Salgado ha storto il naso dicendo: “Per noi nate e cresciute a ‘SI Fest’, Salgado è un fotografo se non minore perlomeno vecchio e superato”.

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Più che “SI Fest”, direi piuttosto “NO Fest”. Spesso. Olivo Barbieri per esempio, o Andrea Modica, artista americana di origini italiane presente nei più importanti spazi museali, dal The Museum of Modern Art al Metropolitan Museum of Art al Whitney Museum of American Art. Sono passati a Savignano assieme ad altri. Il primo lo conosco di nome, la seconda no: ho visto i suoi scatti al “Si Fest” due anni fa. Ok, quindi? Ricordo invece con sommo piacere Mike Brodie, classe 1985 che dopo un bellissimo lavoro intitolato “A period of juvenile prosperity” ha già abbandonato la carriera. Ha conseguito il diploma presso il Nashville Auto Diesel College, attualmente lavora come meccanico a Oakland e ha interrotto definitivamente la sua attività di fotografo. Ha detto quello che doveva dire, e in maniera egregia. Poi ha mollato.

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“Non puoi vivere il presente se non conosci i classici”. Qualcuno me l’ha detta, oppure l’ho letta da qualche parte. Nulla di personale contro i nuovi, ma prima di parlare di fotografia devi aver visto o sfogliato o letto questi “Dieci piccoli maestri” non indiani, più 1: le partite si giocano in 11 contro 11, a calcio. Accetto anche una “googlata”, almeno ti sei fatto un’idea. Meglio ancora l’acquisto in qualche bancherella di alcuni libri. Le foto sono materiche e hanno un odore.

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Henri Cartier Bresson (1908-2004), “l’occhio del secolo”. Scoprite i motivi osservando le sue immagini scattate con la Leica.

Sebastiao Salgado (1944). Lo ha rilanciato Wim Wenders con “Il sale della terra”. Le foto che aprono il film e che raccontano la miniera del Brasile non richiedono spiegazioni.

Robert Capa (1913-1954). Racconta lo sbarco degli Alleati in Normandia con 11 foto, “Le magnifiche Undici”. Da ammirare senza respirare.

David LaChapelle (1963). “Heaven to Hell”, viaggio VIP dissacrante, sensuale e cazzone. Saturo di colori e di suppellettili, contemporaneo, pop, trasformista, quasi carnascialesco.

Robert Mapplethorpe (1946-1989). Nessuno come lui ha fotografato il nudo. Per alcuni è al limite della pornografia (nerchie nere lunghe come pitoni), per me è un Maestro.

Helmut Newton (1920-2004). Ho imparato ad apprezzarlo al Museo che Berlino gli ha dedicato. Glam, ironico, circondato da femmine amazzoni e bellissime, l’occhio sul mondo fashion.

Robert Doisneau (1912-1994). Suo il “Bacio davanti all’hotel De Ville”. L’occhio più limpido, assieme a quello di HCB, su Parigi, forse quello più “superficialmente profondo”.

Man Ray (1890-1976). Tutto quello che oggi si fa con Photoshop lui lo faceva nella sua mente. Maestro surrealista, guardatevi le sue rayografie e la schiena di donna con il violino d’Ingres.

Tina Modotti (1896 -1942). Bella, bellissima. Brava, bravissima. Amante del fotografo Edward Weston, raccontò il Messico con la lucidità primordiale e arcaica del b/n.

Elliott Erwitt (1928). È il fotografo che mi fa più ridere: le sue immagini dei cani sono micidiali in quanto ironiche ma allo stesso tempo “imbrattanti”, non te le togli più di dosso.

Giacomo Brunelli (1977). L’ho conosciuto al “SI Fest”: le sue immagini raccolte in “The animals” e fatte con una vecchia Miranda da due soldi congelano il sangue.

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Di ognuno, solo poche righe. Le fotografie non vanno spiegate, mai. Contengono, se rientrano nell’alveo delle opere d’arte, quel linguaggio unico e universale, quello cioè che non richiede la parola. Una comunicazione per immagini e non per fonemi.

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Ci sta tutta l’attenzione che la Giulia mette nel guardare e difendere dagli occhi delle altre femmine il corpo del suo ragazzo. Oggi ci si presenta con l’aspetto, e poco importa che i giovanissimi si bombino di Viagra per soddisfare una coetanea: la vecchia “sindrome da spogliatoio” oggi è emigrata sui siti a luci rosse, ed è sulle piattaforme, e non nella vita reale, che si misura la virilità. Un “canto alla durata” che non ha lo spessore delle parole scritte di Peter Handke (che non è un fotografo).

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Le teen non le guardo. Non ancora: per me le affinità culturali vanno di pari passo con un bel culo. Poi quando diventerò un rimbambito “invecchiato rigorosamente senza maturità”, (ma pur sempre dandy), probabilmente correrò dietro alle “còtole dee tose”. Mi seducono le caviglie, le mani, il profumo, la pelle levigata, il tono della voce e le parole. Quando non riuscirò ad afferrare più queste ultime, mi lascerò andare agli istinti. Oppure andrò a vedere le mostre dei fotografi che mi piacciono, per fantasticare ancora una volta sui culi, tette, labbra socchiuse e colli modiglianeschi. Sempre meno faticoso che aprire un libro.

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Sexting. Come a dire che ti mando foto intime e tu me ne mandi di tue. Poi quando il maschietto si trova davvero la patata tra le mani fa flop e non la sa maneggiare, come se fosse bollente. Segarsi è meno impegnativo perché non devi soddisfare le voglie del/lla partner ma solo le tue. Però in questo modo ti perdi il contatto della pelle, i sorrisi, i respiri, le carezze. La veridicità dell’intimità. Più facile quindi con Internet dove si sceglie “il soggetto” a cui dedicare le proprie attenzioni: colore dei capelli, misure, età, numero, predisposizione e specializzazioni. Più facile certo ma non più bello…

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Difficile meravigliarsi quando i quotidiani danno ampio spazio alla cronaca a luci rosse: di solito lui chiede a lei qualche foto intima, che poi diffonde tra gli amici che a loro volta le inviano ad altri amici. La fanciulla, una volta finita al centro del “pissi pissi” dei corridoi, dalla vergogna lascia la scuola. Vengono intervistati i Presidi, i compagni di classe, gli psicologi, il cane del vicino, la tartaruga e il gatto che, offeso dalle poche attenzioni e dal fatto di essere stato interpellato dopo gli altri, smette di miagolare. I giornalisti ci ricamano per una settimana e poi “Ciaone”, finito lo scoop-scandalo si aspetta quello successivo. Purché sia piccante, meglio se poi viene coinvolto qualche professore.

Lolita” di Vladimir Vladimirovič Nabokov, che non era un fotografo.

Succedeva anche con le Polaroid, che hanno avuto successo perché scattavi e vedevi (si sviluppavano da sole) senza dover passare dal fotografo. Solo che le immagini non venivano diffuse in ogni angolo terracqueo ma al massimo tra amici e conoscenti. E le foto erano “pezzi unici”: alla peggio, rimanevano incollate tra di loro.

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Semmai il problema è più profondo: siamo quello che la macchina fotografica immortala. Non siamo (più) strette di mano ma pixel. Siamo selfie, a tutte le età. Dalla ragazzina che inizia ad arrotondarsi alla donna matura che “fa le facce” davanti allo smartphone in ogni situazione, dal matrimonio al funerale, passando per il bagno o la camera da letto. Bocche a culo di gallina o imbronciate. Qualche volta si potrebbe anche sorridere…

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Io sono colei che mi si vuole, io non sono colei che mi si crede. Tra Pirandello e gli autoscatti passa la A1. Passa, soprattutto, il tempo. Saper sedurre è un’arte che oggi è solamente fotografica, quindi visiva, e non percettiva. Rispondere alle richieste di immagini personali è una biscia con due teste, non solo soddisfa gli appetiti di chi le riceve ma anche quelli edonistici di chi le invia. Faccio fatica a credere all’ingenuità di chi si scatta “e poi non sapeva”. Basta leggere un quotidiano o, se questo sforzo richiede uno sforzo immane, andare in Rete e informarsi. Informarsi, appunto. Se non invii una foto delle tue tette o della tua passerina come prova d’amore (de càz) lui non ti lascia. E si ti lascia, non era innamorato di te. Eri solo una preda da far vedere agli amici, uno scalpo, un trofeo. “Vedi cosa riesco a farle fare? È ai miei comandi”. Impara a rispettarla e a corteggiarla, stronzo.

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È capitato anche a me, lo ammetto. Non di inviare ma di ricevere. Via mail e successivamente via telefonino. E di contraccambiare. Le ho fatto avere le mie lastre, il palmo della mia mano, il collo, il naso, gli occhiali. Si è incazzata. L’ho invitata a scoprirmi dal vivo, mi ha dato del finocchio. Evidentemente non conosce gli effetti benefici dell’omonima tisana, che aiuta a digerire anche i rospi.

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Sarebbe bello che le persone potessero farsi i selfie ai pensieri. Non alla cultura. Ai pensieri e alle idee, alle passioni e alla… cultura. No, alla cultura no. Alle passioni e a quello che pensano, che sognano. Ma forse il rischio sarebbe quello che per vedere “qualcosa” servirebbe un microscopio. Meglio allora continuare così. Forse.

Alessandro Carli

Gruppo MAGOG