È ora di fare giustizia. È ora di rendere merito al personaggio più bistrattato della letteratura mondiale. Ma ogni cosa ha la sua ora. Parto da qui, allora, dal citofono di casa, che squilla incessantemente. Esco. Una donna di mezza età. Un po’ trasandata. Sguardo scaltro che fa il broncio. Attacca la recita davanti al cancello di casa. ‘Sa, è da un anno che non ho un lavoro…’. Piacere. Anch’io non ho il lavoro, me lo invento giorno passa giorno. ‘E mio marito… e i miei figli…’. Sbrodola una sfilza di geremiadi. Le sfighe di questa donna, penso, a cuore fermo, non sono poi così diverse dalle mie. Però, come se quella creatura fosse un jukebox al contrario, le piazzo la monetina sul palmo della mano per farla smettere. Lei continua, non contenta, forse, dei due euro che le ho dato obbedendo, scioccamente, alla parola evangelica: non negare a chi ti chiede. Io non nego a nessuno. Non giudico nessuno. Se lo scaltro vuole pelare il povero idiota faccia pure. Perché? Perché mi occupo del bello più che del giusto, del futile rispetto all’utile, cioè della sostanza formale (la poesia) rispetto a quella materiale (il denaro, il cibo). Ergo: mi figuro sempre, tra un attimo, a mendicare da vigliacco e a mettere il cuscino sotto i ponti. La tipa se ne va, misurando la vertigine della mia sfiga, ‘è Natale, però…’, sussurra, come se il Natale fosse la panacea dei furbi e il massacro degli innocenti, come se il Natale fosse il planetario condono dei peccati e delle responsabilità (solo per alcuni, però). Tra le tante porcherie che ci costringono a ingurgitare durante i giorni natalizi, due sono quelle più nocive. La prima è il motto – un hollywoodiano sfottò: ‘a Natale tutti sono più buoni’. Essere buoni, s’intenda, significa tirare fuori il portafogli e spendere, fare la carità ai gestori dei centri commerciali, ai giocattolai che speculano – e ingrassano – sul senso di colpa dei genitori, genitori sempre insufficienti al cospetto delle voglie cannibali dei figli. La seconda porcheria è il Canto di Natale di Charles Dickens, questa specie di cantico perbenista, la Bibbia dei buonisti. La storiella, vagamente anticristiana – il Natale non è il giorno in cui si ricorda la nascita di Gesù ma il giorno più bello dell’anno perché ci sono i regali – e vigorosamente antisemita, crocefigge il povero Ebenezer Scrooge – finanziere, speculatore, usuraio dal nome ebreo, che proviene dal toponimo biblico Eben-Ezer, “fin qui Dio ha soccorso”, 1 Sam 7,12 – che è in realtà la persona più sana di tutta la favoletta. Intanto, Ebenezer non crede alla fandonia natalizia. Ha ragione. Passiamo l’anno a torturare il prossimo nostro, a incattivirci se uno non ci da la precedenza, a battezzare di bestemmie il primo che passa, a macerare come aceto rancido nell’invidia e poi… a Natale facciamo finta di essere più buoni perché mangiamo il quintuplo di un giorno qualunque e l’alcol ci disinnesca la bile? Che uomini atroci, malsani, bastardi che siamo. Ebenezer si rifiuta di fare l’elemosina ai ‘puri di cuore’ per i poverelli del mondo. Ha ragione. Ha una visione ‘orientale’ e fatalista dell’esistenza: a questo giro ti è andata male, al prossimo, chissà. D’altronde, ragionevolmente, a chi pretende l’obolo natalizio risponde: bello mio, io pago le tasse e sono a posto con il fisco – esempio di onestà al diamante il vecchio, rugoso, arcigno Scrooge – agli sfigato ci pensino – lautamente finanziati – gli ospizi, le Caritas, Mamma Chiesa. Inoltre. Ebenezer ha un sacco di soldi. Ma volete mettere Ebenezer rispetto a un Flavio Briatore qualunque, che fa i soldi per fare la vita beata del beota? Ebenezer ama il denaro in sé, è un poeta del denaro, ne ama la forma, ne adora l’armonico tintinnio, gli piace costruire ardite ziqqurat con il denaro. Ama la luce paradisiaca che emana dal denaro – una luce che i soldi ‘di carta’ non emanano più, tanto meno quelli digitali, per cui oggi blateriamo di soldi come di nuvole, il denaro ora è l’onnipotente e l’invisibile, ha il medesimo bouquet di aggettivi con cui infioriamo Dio. Ebenezer non spende il denaro perché lo ama troppo. Beh, allora è proprio lui, Ebenezer, il dio del Natale, lo spaventaricchi che dobbiamo sventolare davanti ai triti altoborghesi che fanno la coda per fare il solito regalo – comprato, stesso formato, stessa sostanza, stessi soldi, da migliaia di altri ricchi&sfigati – alla solita amante rifatta, alla solita moglie petulante, ai soliti figli ignoranti. La ferocia di Ebenezer Scrooge, oggi, è un vasetto di Nutella: d’altronde, il taccagno si converte quasi subito, già al primo spettro si commuove. Il sano materialismo di Ebenezer (vuole le cose concrete, non le astrazioni dei ‘sentimenti’ che vengono a vanno al mutare delle convenienze), la sua visione cupa e nichilista – rispetto ai tronisti dell’ottimismo – certo che nel cuore-bunker di ogni uomo si nasconda un criminale, è corroborante. Non dobbiamo spendere un euro per Natale, non facciamo regali per onorare gli scontenti e i militanti del consumo – ha ragione Scrooge – non compriamo bestie assassinate e macellate per far godere il nostro stomaco natalizio – ha ragione Scrooge – non diamo false speranze ai malmenati del regno – ha ragione Scrooge. La favola ‘capitalista’ di Dickens – siate buoni, spendete tanto – ci ha corroso il cervello. A dire il vero, il vero Ebenezer è proprio lui, ‘Carletto’ Dickens: con Christmas Carol, nel 1843, ha fatto un mucchio di quattrini. Non li ha usati per finanziare opere pie. E noi continuiamo a fare la morale a Scrooge… Ebenezer soccorrici tu. Il più necessario dei personaggi della letteratura mondiale trattato come un arcigno bastardo.
Davide Brullo