“È come quelle due sorelle, Fede e Fortuna. Fede non può escludere Fortuna, ma Fortuna non può spiegare Fede. La mia Fede mi ha privato della Fortuna e la Fortuna non mi ha dato la Fede”
La trama della pellicola è ben nota e plebea: due coniugi in rovina. Uno spunto che ha ben poco di eroico o di tragico. Eppure… La dissoluzione individuale come metafora dell’irruzione del Caos nella Storia. Żuławski, reduce da una penosa separazione, si aggira come uno spettro etilico per le strade cupe e cariche di sobbollimento di Varsavia.
Fin dal precedente La terza parte della notte (1971) l’Autore è in odor di censura e inviso alle occhiute autorità della Polonia per il nichilismo dichiaratamente anti-materialista dei propri lungometraggi. In una mistura esplosiva quale era la Polonia socialista e fervida di cattolicesimo il linguaggio, figurativo e non, del regista risuona blasfemo e alla nomenklatura e al potere della Chiesa.
Una sorte che toccherà anche Possession, mai distribuito in entrambe le Germanie spezzate dal Muro e fortemente soggetto a tagli nelle distribuzioni internazionali per mitigarne le irriverenze. La pellicola è un viaggio onirico e perturbante nei recessi del Male (“Il Bene non è che un riflesso del Male” recita una maestosa Isabelle Adjani) che informa e deforma la totalità del reale al punto da renderlo irriconoscibile, una allucinazione ed una caricatura al contempo.
La libido freudiana viene saccheggiata (il monstrum è insieme, il Male voluto da Dio per l’uomo, in un macabro divertissement empireo e l’Es represso dall’osservanza alle convenzioni sociali) e corrotta dall’escatologia gnostica dell’Autore. Dio è una malattia e soltanto in grazia di essa possiamo sperare di giungervi. L’eco di Dostoevskij è assordante.
L’uomo è una creatura tarata, voluta da Dio per stemperare il cafard di una eternità luminosa, priva di imperfezione. Il vorticare della camera a mano traduce la Caduta irreparabile alla quale, tanto il fedele che il non credente, sono condannati. Memorabile, a questo riguardo, la scena di autoerotismo in cui la protagonista si cimenta dinnanzi al silenzio del Christus patiens.
La volontà di annientamento – tutto è vano, dice Qohélet, e dunque tutto ciò che vive è dannato a ripetere senza fine una traiettoria figlia del Caso (la Fortuna dei romani) e della Necessità. Il biologismo come sostituto dogmatico della Fede che i tempi (gli ultimi?) a noi concessi hanno ribadito in un delirante crescendo. L’uomo è, come Isabelle Adjani/Anna quando sputa in faccia allo spettatore erompendo dalla quarta parete, il “motore del suo stesso Male”. Il motore della scolastica, eternamente immobile, precipitato nella fragilità della vita. Ed in questo farsi creatore di sé stesso, demiurgo autopunitivo, l’uomo non ha che da arrendersi alla malattia, di cui è sostanziato, o alla follia, dalla quale è invaso: “Io soffro, io credo, io sono! Ma allo stesso tempo io so che c’è una terza possibilità, vedi, è come il cancro o la pazzia, ma…ma…il cancro e la pazzia deformano la realtà.”
Un labirinto di cui è nota l’entrata (la nascita) ed è nota l’uscita (la morte) è ancora un labirinto? Pellicola di abbacinante profetismo, visionaria nella sua mistica del Negativo, Possession è una esperienza del liminale che rechiamo in noi, stigma insanabile della miseria umana.
Luca Ormelli