Per un capriccio della mente, William Butler Yeats e Pietro Castellitto si spartiscono gli accordi di un’epifania. Il primo, con i versi di una poesia – Un aviatore irlandese prevede la sua morte; il secondo, con una scena del suo ultimo film, Enea (ora approdato allo streaming). Alla genìa irlandese non sfuggono le vene – la riscrittura del mito pare congenito invito.
Profezia di vitalismo a dissipare ogni grinza nichilista, l’aviatore di W. B. – “Un solitario impulso di gioia/ mi spinse a questo tumulto tra le nuvole” – pare intercettare idealmente l’Icaro di Castellitto –Valentino, pilota fresco di battesimo – nell’istante prima d’involarsi verso l’eterno. Più che a cercar la morte, a superare, in volo, il tempo – futuro, passato, disperso.
La vita è un voto da indossare – sembra suggerire l’amicale patto tra Enea (Pietro Castellitto) e Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, in arte Tuttifenomeni), antieroi nella deserta misura dell’Urbe. Virile vincolo ad annientare ogni infida retorica di fluidità. L’identità s’intaglia qui nella parola snudata – quella di Valentino, incisa nella teatrale impudicizia di un ricchiò che pare sbucata da un romanzo di Giuseppe Patroni Griffi.
Se l’opposto del borghese è il poeta – per dirla alla Marina Cvetaeva –, l’Enea di Castellitto, mito nel nome e Roma Nord sulle spalle, reca in sé il germe di una poesia urbana, fregiata di metafisica fisionomia. L’efferatezza borghese – declinata fra i gironi laici del beau monde capitolino, puntinati di domestici in livrea, licei privati per rampolli illetterati, volti azzimati da gestori di sushi bar, party allucinogeni e ville patrizie – è smaltata e poi annientata da Castellitto con il peso lieve ma granitico della tradizione. È la testa mozzata del capitone nel giorno di Natale – il male che va masticato, ingoiato, digerito. Scena che pare un omaggio ai Parenti serpenti di Monicelli.
Le particelle elementari di Enea s’intuiscono già, in gemma, ne Gli iperborei – scheggia letteraria alla Bret Easton Ellis, installata nell’Upper East Side della Capitale – e I predatori, pellicola di ferma evanescenza – la bomba sulla tomba di Nietzsche è puro peana al romanticismo. Potenza della forma ad annichilire il potere della trama, si snoda, Enea, nel drappo della suggestione, un ikebana di angolazioni in fuga fra loro – sospinte dalle musiche di Niccolò Contessa. Non onanistico esercizio di stile, ma scultorea visione del mondo.
Castellitto ‘ha qualcosa da raccontare’ – per usare un’espressione sorrentiniana. E un suo stile – antimoderno, antiprogressista, libero.
Nel rivolo di un bacio mancato, si compie il mito. E il rito. Iniziazione, passaggio di grado dalla giovinezza a “un’altra cosa”. Una paradigmatica Eva (Benedetta Porcaroli) come svampita vestale di un amore allo stato ninfale e un borgataro guru che si fa avanguardia per reazione, a scortarne la filosofia. Enea è un film di contagio – piacerà a Walter Siti.
Rapaci sirene, incantano con tacito cantico, le madri. Mute – in antitesi all’epoca della parola in esubero – o dissociate dai frammenti di un soffitto che frana in salotto. Madre – parola e preghiera, la prima che bacia la bocca, ultimo sibilo prima di spirare fra gli spari.
Si suicida e non muore, il mondo di Enea – e prima che il giorno si perpetui in porporata replica del precedente, l’unico dei destini possibili pare la morte immortale, quella del giovane per sempre. Bruma di speranza – parola che terrorizza, asseriva Cristina Campo –, parola che schiude il film, fino a dissolversi in una chiusa che sbracia ferocia. All’acme dell’amore. Ma al Nuovo Cinema Roma Nord nessuno rende indietro una bobina di baci. Qui ogni bacio è un non-bacio – o forse solo un memento mori.
Fabrizia Sabbatini