Una serie di anniversari ci intimano: questo è l’anno di Pedro Almodóvar. Il 25 settembre compie 70 anni; nel 1989 accade la consacrazione con la nomination agli Oscar per Donne sull’orlo di una crisi di nervi; vent’anni fa manda in sala Tutto su mia madre che vince Oscar per il miglior film straniero e premio per la migliore regia a Cannes. Da allora, Pedro Almodóvar è tra i grandi registi del pianeta. Quest’anno, con Dolor y Gloria, Antonio Banderas, l’attore feticcio di Almodóvar, stupisce Cannes, vince il ‘Prix d’interprétation masculine’. D’altronde, L’Espresso ha titolato così il pezzo di Fabio Ferzetti: “Dolor y Gloria, così Almodovar è ritornato grande”. Buon compleanno, Pedro.
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La ragione del successo sta, certamente, in una micidiale costanza. Almodóvar nasce in un contesto ‘sbagliato’, che non lo soffoca ma ne esaspera l’alterità. Rompe la norma familiare, frantuma il tabù sociale. Fugge. “Sono nato nel 1949 a La Mancia, un luogo del tutto arretrato. I miei genitori vivevano effettivamente nel XIX secolo e hanno dato alla luce un figlio del XXI secolo… C’era un enorme divario tra le loro aspettative e le mie. Volevano che restassi nel paese, mi sposassi, trovassi un lavoro in banca. In effetti, il lavoro in banca me l’hanno perfino trovato. E l’ho rifiutato”.
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Per certi aspetti la consanguineità del voyeurismo sbeffeggiata con languida furia da Almodóvar è il fondamento del cinema (spiare quello che accade agli altri, giudicare con pettegolo astio). “Ho subito odiato la vita di paese. Ne ero inorridito. Consanguineità. Gente che guarda nelle case degli altri. La sola cosa che contava era quello che facevano i vicini e cosa pensavano di te. Per me era un inferno. Volevo soltanto scappare”.
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Si diceva, la micidiale costanza. Scappato a Madrid, Almodóvar studia cinema e si dona alla movida e fa di tutto: dai dischi ai fumetti. Partecipa, precipita, esagera – ma non si perde. Fa i film e lavora. Per dodici anni, per la società Telefónica. “La notte era infinita. Ma io ogni giorno dovevo alzarmi presto. Questo è stato una salvezza. Ero nel centro di tutti gli eccessi. Ma dovevo scrivere i copioni a casa e la mattina dopo dovevo alzarmi per andare a lavorare. Ad ogni festa, ero il primo che tornava a casa”.
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Il successo arriva se resti ancorato al metro cubo dell’ossessione, ai colori sgargianti di Madrid, alla dissipazione fluorescente. Almodóvar si licenzia da Telefónica negli Ottanta, quando comincia ad avere successo come regista. Eppure, rifiuta Hollywood. Volevano fargli fare Sister Act, poi Brokeback Mountain e The Paperboy. Pedro non si muove da Madrid e redarguisce Banderas perché, per un pezzo, gli ha preferito Los Angeles.
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La nota tragica nel tango grottesco, la stilettata ai fianchi, ecco cosa ami di Almodóvar. Sangue e sperma. Il gioco che si volge in scempio – e viceversa. Il toro che scombina i piani di morte del matador, il corno che balugina come un fiotto di luce. Il carisma di Rosario Flores in Parla con lei.
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Nella lunga intervista rilasciata a Xan Brooks dell’Observer, Almodóvar tocca due punti essenziali. Il primo. L’artista cannibalizza la propria vita, se ne espropria e la macella perché se ne cibino altri. Non guarda in faccia nessuno – soprattutto, non ha pietà per se stesso. Esagera l’autobiografia, esaspera con le esclamazioni, passa dal laido al pianto, fa di una ferita al dito una Filistea.
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Questo, di rimando, trincera in una non ambita solitudine. “L’arte domina la mia vita. Personalmente, non ho bisogno di nessuno. Ho lasciato andare via tutti. Li ho tagliati via. Potrei recuperarli, se volessi. Ma avrei bisogno di un uncino e di uno sperone. Avrei bisogno di un motivo”.
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Perciò, il terrore della morte. La madre di Almodóvar – ennesimo anniversario – muore quando lui compie 50 anni, nel 1999. È lei, donna di ruvida potenza, a definire minutamente i dettagli del funerale, prima di morire. Soprattutto, chiede che non gli leghino i piedi. Tradizione vuole che ai morti vengano legati i piedi, di modo che non sbattano contro la bara, che i cadaveri non scappino, di notte. Voglio correre, voglio essere libera, pare abbia sussurrato la madre al regista. “Non riesco a credere che la morte esista, che sia reale. Sono ateo, non credo nell’aldilà. La morte mi pare innaturale, strana. Quindi, sì, ho decisamente paura di morire”.