«Non esiste più il campo della Sava, / nemmeno quello disadorno degli oratòri / dove giocavamo fino allo stordimento / sotto i cieli mutilati delle industrie». È bene iniziare così, con questi versi scarni, che raccontano di minime, lontane felicità suburbane, a porgere la poesia di Pasquale Di Palmo, ora raccolta in un’antologia che riunisce ponderatamente trentacinque anni di attività (Pasquale Di Palmo, Breviario delle rovine, postfazione di Rodolfo Zucco, Edizioni Medusa, 2021).
Piccole estasi di adolescenza, asserragliate nel ricordo di «partitelle a sette», giocate su alvei privi d’erba, «con le linee tracciate con il gesso sul terreno duro come una petraia», o «sui campi più rognosi e insalubri di Marghera», crossando controvento verso la «testa ricciuta» del compagno, nella nettissima percezione dell’istante sigillato in eternità.
Il primo istinto, di fronte a un poeta veneziano, è riprendere in mano Brodskij (Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, 1991) che, nel suo memorabile omaggio d’amore a Venezia, ci restituisce una città invetriata d’azzurro, ricamata e sopita nelle valve della propria bellezza; percorsa da battelli silenziosi, presenze ovattate, fluttuanti tra i vapori marini.
Di Palmo sa della bellezza, dell’acqua, delle magiche nebbie in cui la Venezia letteraria si dissolve; autore anche di una monografia in tal senso (Pasquale Di Palmo, Venezia. Nel labirinto di Brodskij e altri irregolari, Unicopli 2017), egli sconfessa però in parte l’immaginario consueto, svagato ed estatico, tipicamente rivolto alla Serenissima, e ne svela invece piani interpretativi e sensoriali più stratificati, autentici; da cui emergono anche le penose criticità e le contraffazioni che, a causa di una stolida sete di profitto, la città ha dovuto patire.
Ma pure affiora, ostinata d’anima, la Venezia sacra e cultuale dei sepolcri di San Michele, limen a dimensioni spirituali altre; quel luogo sontuoso nei cromatismi e nelle forme, inafferrabile, la cui essenza, mutevole e perpetua, trova il suo alimento nella luce: «Il ricordo è un ricordo della luce, una cascata luminosa che spiove sul mio risveglio di bambino in un letto matrimoniale […] qualcosa di indefinibile e celestiale […] Un angelo probabilmente si manifesta così».
Così, anche in Breviario delle rovine, lo sguardo del poeta per la sua terra non è quello consueto del turista, ammaliato dagli sfarzi barocchi, dalle facciate di trine che specchiano nelle vie d’acqua: Di Palmo, veneziano di nascita e di vita, non dedica ai suoi lidi un’elegia equorea, ma li candida a luogo stremato di offerta. Dimenticando il proprio essere critico, traduttore, saggista, letterato dalle opere numerose, dal contributo culturale intenso e stimato, egli mostra di sé solo l’uomo: intatto e spoglio, creatura che conosce ora per ora la sua liturgia, egli riporta i segnati «appunti» di un quaderno in cui cerca rifugio un ultimo, tremante essere vivi; sullo sfondo una Venezia altra, terrosa e cementificata, minata da un vento a raffiche, che graffia e strappa, fiaccata da un sole rissoso e livido, tra i miasmi di combustibili e i piazzali riarsi.
Sovrana, nel canto, una quotidianità di umana vita e umano dolore: quel trasmutare e migrare, quel perire dolcissimo che ci fa fragili e perduti, invidiati finanche dagli dèi: «Morirò un giorno di settembre, cieco / per troppa luce di sole e di viole. / Il cielo sarà azzurro come un fiore / di campo dopo l’uragano. Vano / sarà schermirsi con debole mano / dal pulviscolo biondo come grano / che mi ondeggia sugli occhi. Cercherò / nell’alone di fiato la tua verde / ombra che s’agita nel caminetto, / felice di vagare, dolce spettro, / nel fuoco viola dell’iride. Senza / un grido me ne andrò lungo il sentiero / arioso, con le tue rose sul petto».
Svanisce la città incantata di brume, ninfea posata e madida, e si leva una rocca assolata e scossa dal vento, in cui gli spettri gridano attraverso le rovine: «Nel sole azzurro si sfalda / la luce funerea del pomeriggio / incuneata nei vicoli / dove il vento continua a delirare»; e ancora: «Sui campi flagellati / da luce impietosa/ ride come un eczema / il volo stordito delle cavolaie. // Si incide contro un cielo / di cartapesta / il fico scheletrito. // Ha pagliuzze di raucedine / la rosa fiorita in gola».
Sempre a proposito di Brodskij: la città d’acqua è per lui apparizione e sogno, fiaba che s’arma di bellezza – così come lo era, per Achmatova, tutta l’Italia – e che lo nutre di voluttà, nelle ripetute stagioni. Pur non sentendosene riamato, il poeta ha occhi accesi, rapiti da questa Venezia pacata, altera e solo parzialmente dischiusa, formalmente accogliente nel garbo, nel riflesso, ma casta come una divinità che cede alla venerazione, e al devoto visitatore parzialmente accondiscende. «Suprema beatitudine» è, per Iosif, «l’odore di alghe marine sottozero». Reminiscenza atavica di appartenenza al phylum dei cordati, ancor prima che nostalgia di un’infanzia nordica, addensata, opalescente: «Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove / onde grigie di zinco vengono due a due» (in Iosif Brodskij, Poesie 1972 – 1985, a cura di Giovanni Buttafava, Adelphi 1986). È un’affezione predestinata quello del poeta russo per una Venezia sopita e superba, venata dall’umido gelo dei canali, intrisa degli effluvi ittici inscritti come cifre affini nel più profondo ipotalamo di un uomo del nord; nella chimera di nebbie salmastre, egli sente l’ichtýs come l’ineffabile e il sacro perpetuo, genoma della nostra stessa civiltà: «Ricordati bene: / l’acqua, soltanto l’acqua, sempre e ovunque / resta fedele a se stessa, insensibile / ad ogni metamorfosi, liscia, distesa / là dove non è più terraferma. E tutto il pathos / della vita, l’inizio, il mezzo, il calendario / che si sfoglia, la fine, eccetera, svanisce / in spume lievi, eterne, senza tinte» (San Pietro, in Iosif Brodskij, Poesie).
Per il poeta baltico – in visita reiterata per lunghi anni, durante la pausa accademica statunitense – Venezia è un’allegoria sfuggente, ma definita dal nitore dell’inverno: stagione candida e dura, in cui il gelo contorna crudelmente gli oggetti, dando colori desaturati, sagome rilevate, e giornate laconiche, intagliate in brevità. Ma Venezia è altresì il vaporetto che fende le acque scure di notte, tra palazzi nobiliari come ciclopi dormienti, ricolmi di dorati tesori; un groviglio di vicoli e calli, bagnati da arterie limacciose, gelide d’azzurro, o imbronciate nel grigio-bruno della foschia, abitate da cronache antiche, da riverberi e rifrazioni di marmoree armonie: intarsi, capitelli, cherubini e cariatidi, frontoni e finestre moresche, balconi su facciate guarnite, cupole di zinco; nicchie con apostoli solenni nei loro panneggi, angeli alati; e ambigue creature di pietra appuntite in sguardo: draghi e grifoni, sfingi e basilischi; e ovunque leoni alati, che vegliano il riposo ultimo di San Marco. E ancora, per Brodskij Venezia è il rintocco mattutino delle campane, i gabbiani in volo, i colombi sul selciato della piazza. Una città aristocratica, di fiera bellezza nella luce argentea, «con accordi di Vivaldi e Cherubini per sottofondo, con corpi femminili drappeggiati, quelli di Bellini/Tintoretto/ Tiziano, al posto delle nuvole».
Sulla superficie delle acque, afferma Iosif, aleggia lo spirito di Dio, e l’acqua altro non è che la materia del tempo, che assorbe la realtà restituendola fluida e cosmica, disciolta e libera dalla rigidità delle forme. Venezia è un dedalo mobile, cangiante, interminabile, un groviglio guizzante di calli e callette prive di necessità di orientamento, universo onirico e vago, in cui gli interni regali sono velati di grevi tendaggi stinti, marmi intarsiati e divani di velluto, specchi muti incorniciati da ghirlande floreali o fregi aurei, busti di antenati incipriati di polvere, in un «dissiparsi retrogrado» verso ere ancestrali di quiete degli oggetti, dormienti nell’assenza di struttura e colore che ridà loro sfocate origini staminali. Venezia è il fulgido sole invernale sul frontone di San Zaccaria, carezza «dell’infinito dal quale essa è venuta», è quella sera d’inverno in cui il mare, premuto dal vigore teso del Levante, risale i canali traboccando, fino a rendere la città una vasca azzurra, madida di allarme. La Venezia di Brodskij è l’acqua corale, che ancora dà dimora a crociati e mercanti, ai turchi e alle galee; che si intorbida d’alga e fango, o si imbibisce del lucente nero notturno; l’acqua che è come musica, nel pentagramma dei canali, nei «legati» dei ponticelli, tra le gondole pregiate dai manici di violino: un’orchestra che si risveglia, i palazzi come leggii illuminati, nel coro eterno delle onde, nel «falsetto» di una nitidissima stella invernale.
Di Palmo, che a queste lande nasce in grembo, fa della bellezza un antefatto: conosce e accantona, va oltre. Cerca l’anima della sua terra nella carcassa, nella rovina, facendone pietra d’angolo (così il Salmo 118, e così, sapientemente, Zucco in postfazione); nel dissesto che riedifica, nello scavo che rivela e rifonda. Il poeta qui isola nel setaccio la pagliuzza dal limo, esplora quanto, in un panorama degradato e arreso, rimane degno e schietto, mestamente puro: «Andremo sotto un cielo di zucchero / dove oscilla l’umbratile agrifoglio / barcollando tra le mani dei marmi / e i denti martoriati delle mura // contro la febbre di un sole verticale / che posa con la sua mano di cera / lo scarabeo del sonno sulle ciglia: / sì, aprile ha il colore di un’unghia».
Nelle liriche giovanili – di cui alcune ambientate nel grossetano – il linguaggio classico è cadenzato in metriche sorvegliatissime, e una natura colma d’incanto alterna tenerezze e sconforti, esperiti in «scontrosa giovinezza»; nelle sezioni successive emerge una progressiva daumaliana «nausée d’être» in cui sfondi desolati fanno da correlativo oggettivo a stati d’animo smarriti e infecondi, cui segue un graduale atteggiamento destrutturante, da essere umano a piccola cosa viva, fino a oggetto inanimato o persino deteriorato: «Quarant’anni quarant’anni / e polvere nelle tasche / e desiderio di essere erba / e pietra e fuoco e rovina. // Parole senza più senso / campeggiano nel quaderno / del silenzio, sbavature / di inchiostro, psicofarmaci, scarabei».
È in tale esistenza minimale che s’affaccia lo scenario definitivo: un entroterra veneziano ferito da afflitte installazioni, che sembrano voler ribadire al cuore l’opportuno tempo della resa: «Nel cielo di un’emicrania si propaga / la sirena che fende il panorama / degli alberi rachitici che affiorano/ dai calanchi della zona industriale».
Proprio sul fondo di questo disarmare ogni aspettativa, lacerti di salvezza emergono nel farsi piccoli, sventati, minimi: «Camminare incontro alla chiglia del giorno con il sole che ti bruca la faccia, in esso riconoscere la felicità degli ebeti. Stendersi in un prato, sedersi sulla panchina di un parco suburbano contro un cielo sereno. / Rialzarsi nel vento senza i soliti mulinelli in testa, essere lieto della neve, dei detriti, degli aghi di ghiaccio sulla carotide. Penetrare nella cordigliera del sonno senza più voce, finalmente muto, in spregio alle nuvole che ti burlano».
C’è, in Di Palmo, un ineffabile salvifico, mobile e arioso, alato: il vento per esempio, è presenza costante: a volte portavoce d’affanno: «Vento, coro di murmuri che sale / da rosate colonne alle campane / avvolte nel sudario della luce, / un’inquietudine, che solo mia / credevo»; a volte sferza dolorosa: «Rasento mura altissime, nel vento / vertiginoso di aprile / che scuote le piante / con una raucedine / che affiora dai meandri del suo sterno», ma sempre cosa affrancata, tersa: «Si cammina leggeri / sfidando il rigurgito del vento, / in testa solo pensieri / che hanno questo lieto, / quieto zigzagare di aquiloni»; e talora nume che scuote, ferisce e monda, col dono di riportare al cardine della scrittura, al «quadernetto di poveri appunti», stretto fortemente al petto come un viatico, un talismano.
Ma se la componente aerea del naturale fluire ha spesso connotazione di volo, libertà, felicità: «Io perdermi vorrei come il falchetto / che incombe nel cielo d’agata / percosso dall’ombra delle vele / laggiù, verso il candore azzurrino del mondo», al contrario l’elemento liquido in Di Palmo assume sovente valenza «catacombale», lasciando trapelare riflessi spettrali, caliginosi, persino visi di annegati. In particolare, nella sezione Marine e sortilegi, la minaccia dell’acqua si fa evidente, nella cronaca riportata di alcuni annegamenti in cui, per umana ferocia, è mancato il gesto del soccorso.
Va detto che Di Palmo è un poeta vasto, multiforme: nei suoi versi, pure rabbuiati dalle consapevolezze di un’età adulta che, per sua definizione, è segnata e contusa, mantiene freschezza di fanciullo, che «gioca interminabili partite / sulla piattaforma in cemento della Gescal, / con il volto che affila volto e fianchi, // la palla servita / al compagno più imbranato / che spreca l’occasione imprecando / nel sole allucinato delle due e quaranta»; ma, a un tempo, di fronte alla vecchiaia e alla malattia del padre, trova la postura retta e spoglia della sua più autentica e compiuta umanità: «Tu, nel baccello della carrozzina, / diventatomi qui, / appena nato, / parvenza di figlio» e ancora: «Io nato dai tuoi lombi / ti tengo nel mio pugno, / microscopico insetto / felice di sgusciare per poco / dalla vertigine del letto».
In questa sezione, dal titolo Centro Alzheimer, avviene una trasfigurazione toccante: non l’intellettuale qui, non il letterato che ha tradotto Artaud, Daumal, Metz, Michaux – solo per citarne alcuni – o che ha scritto di suo pugno o curato numerosissimi volumi in poesia e in prosa, approfondimenti e profili biografici, antologie e carteggi, ma il figlio di un padre divorato dalla malattia che rapisce la parola, il pensiero, il senso; che fa tornare bambini smarriti, con lo sguardo rivolto in alto: «“E adesso cosa femo?” ripetevi / fissandomi con occhi stralunati, / seminudo, le gambe di un poppante»; anche Di Palmo qui si ricrea piccolo, nativo, e prende a parlare a suo padre nella lingua di casa, di famiglia, in dialetto: «Adesso ti xe un albero, papà, / uno de quei alberi / che no gà più bisogno de niente: / basta un fià de vento / un fià de piova / per viver na vita / piena de sgrìsoli, / de usignoli che se sgola».
Viene qui alla mente come Brodskij usasse l’inglese per i saggi, mentre il russo – lingua madre – riemergeva in poesia.
Ma laddove l’uomo va oltre il poeta, la pietà va oltre il lutto: la vicenda personale diviene un varco a una più ampia umana compassione, che da sentimento filiale si fa attitudine pervasiva nella sezione La carità: nella perdita, il paesaggio diviene «silenzio che divora il suo silenzio», e alla sensazione di essere «ruota di un vasto ingranaggio», ci si può opporre soltanto rivolgendo arti e viso al «vento della barena», al «sole di diaspro», in «tacita preghiera / rivolta alle erbe, / alla polvere dei campi, / ai sentieri che riportano a casa»; è questa la parte forse più struggente dell’intera raccolta, in cui la natura rimane madrina pietosa di bellezza, ma l’uomo deve farsi carico dell’altro uomo, e avere sguardo accogliente e sgombro, cuore divaricato. Di Palmo qui riporta le sorti di molti esseri umani sofferenti o segnati, chiamandoli per nome, portandone a consapevolezza le storie, dipingendoli con dignità intatta e affettuoso rispetto.
Ancora: se Brodskij vive una città abitata da ombre e comparse – come l’«elegante creatura» femminile, «visione» dagli «occhi a mandorla» che lo innamora, o l’emaciato nobiluomo, discendente d’ammiragli, che riceve nel suo palazzo barocco, dedalo di corridoi col «soffitto convesso, brulicante di putti» – figure archetipali che sfumano inaccessibili come spettri, nell’acquerello appannato di foschie marine, di effluvi di un Adriatico torbido e aromatico, ebbene i personaggi che abitano i versi e le prose di Di Palmo sono invece definiti con contorno nitido, quasi televisivo: hanno spesso nome e cognome, e una localizzazione topografica precisa: vie, piazze, numeri civici, accanto alle loro dettagliate vicende. Perché il poeta sa che non c’è nulla di vago nel dramma, ma è precisa la carità, come preciso è l’amore. Ecco Mattia che agita la marionetta, gonfia i palloncini, Margherita alla fermata di via Calvi, Roberto seduto a Quarto d’Altino, vicino alla pasticceria chiusa; la povera donna di via Carducci, orfana di maternità, con una bambola nella carrozzina; ecco la signora delle sette, che arriva in bicicletta, non parla con nessuno, solo dà da mangiare ai gatti; Danilo che chiede un panino, i vecchi assopiti «sul castello / sbilenco delle vertebre» o «storti curvi magrissimi» che «allungano il collo / di tartaruga sotto le sciarpe» verso la luce del mattino; i ragazzi Down, che si tengono per mano, portando zainetti colorati, il cappellino di un’università dell’Ohio; e Franchino il portiere senza denti, che muove «nell’aria soltanto le mani enormi delle persone che sanno, che non sanno».
Cristina Campo aveva chiara cognizione, parlando del «genio» e dell’«idiota», di questa innocenza altissima; e sapeva che, a chi non è data, non rimane che la carità: «lama fredda», dote vicaria ma preziosa, quando riesce a dare voce ai «senza-lingua». Anche Brodskij, caustico intellettuale, di fronte a certe soavità cede, in arresa tenerezza: «E quello stesso ferro, o Maria, // che la sua carne tormenterà, pure te / trapasserà nell’anima, affinché questa ferita ti faccia vedere / dei cuori umani i segreti pensieri» (Nunc dimittis, in Iosif Brodskij, Poesie).
Ma c’è ancora qualcosa che freme in entrambi i poeti, ed è una grazia dolente nell’osservare il tempo: il mutare, il perire, crepaccio in cui tutto affonda, ma da cui tutto rinasce e s’illumina. È proprio al cospetto del tempo che Brodskij spoglia i panni del cattedratico distaccato, e riconosce l’ente supremo, che avvolge, dissolve e serba, essenza per lui racchiusa nell’incantesimo mobile e interminato dell’acqua: «Così si sorge dalle acque, con un fiore in mano, / ammaliando la riva ruvida con la pelle liscia / e si dimentica l’abito, anzi lo si lascia / diguazzare lontano. / S’incoraggiano così le pieghe, per non dire delle onde. / E dopo mille anni, pesci e uccelli accecando, / si cammina così sulle onde e così in esse / ci si riflette, riguardando se stessi» (Strofe veneziane, in Iosif Brodskij, Poesie).
Per Di Palmo invece lo scorrere delle stagioni è un concreto assoluto, oscuramente incarnato nell’umano fisico declino, ma anche negli amari mutamenti del territorio, in quell’entroterra sferzato dal degrado, dalla cieca produzione, gremito di impianti e stabilimenti: grigi fabbricati dismessi, tra cavalcavia e cimiteri, parcheggi assediati da una natura malata, che cresce inglobando spazzatura e siringhe; impalcature crollate e ospedali abbandonati, «binari smantellati di treni merci»; luoghi dove si parla «ai sassi, alle rovine», camminando «come sonnambuli sotto cieli di cartavelina».
Due poeti, due Venezie, due salvezze: entrambi medicati dal canto, dalla scrittura: Brodskij: «Così la penna va/ sopra la carta liscia / di un quaderno, e non sa / come finisce / ogni sua riga, / dove si mescolano / saggezza ed idiozia […] senza togliere polline dai fiori, / ma facendo più lieve il cuore» (Farfalla, in Iosif Brodskij, Poesie), e Di Palmo: «Carpisce al vento l’erba del quartiere / la voce inabissata, / come un sortilegio la riporta / sul quadernetto a righe / questa calligrafia da chiromante».
Com’è noto, il saggio di Brodskij ha, nel titolo, un riferimento alle Fondamenta delle Zattere allo Spirito Santo, nel sestiere di Dorsoduro. Limite meridionale della città, ultimo camminamento e approdo prima del canale della Giudecca, dove un tempo era attivo L’Ospedale degli Incurabili; ultima via percorribile prima delle acque, un avamposto di umana cura; dedicato ai corpi perduti, piegati dal male. Eppure fondamenta. Eppure rimedio.
Questo titolo, nato per celebrare una città sognante e metafisica, riverbera ora come istantanea seduzione anche nello scabro e leale universo di Di Palmo: l’essere umano, incurabile e trafitto dal tempo, immemore per demenza o per dolore, segnato dalla sventura per nascita o destino, cerca fondamenta ultime nella ricevuta o resa carità dello sguardo. Ricordare, esser ricordati, essere guardati, guardare armandosi di cura. Stare accanto al proprio padre esautorato dalla vita, donargli l’istante prezioso: una passeggiata in carrozzella fino alla piazza, in un giorno di sole: «Se un fià de vento te sùpia in faccia / ti ridi come un putèlo, / ti te sistemi i pochi cavèi / co i dèi grossi come s’ciosi. // E ormai ti xe un putèlo / el me putèlo picolo / che no xe in grado / de capir de parlar // adesso che andemo / incontro al sol che ne speta / in piassa stamatina / una de le ultime che ti vol star co’ mi».
Se Fondamenta degli incurabili riesce a custodire, nel suo incanto, un assaggio di eternità, Breviario delle rovine gli fa da specchio, perché sa di Venezia, del sortilegio dell’acqua, della caducità distillata in lacrima, ma guarda anche d’intorno, e approda più lontano: tenendo in sé quel rialzarsi gentile dal male, quel donarsi immune al dolore, che testimonia l’uomo intero, e si fa particella d’amore infinito.
Isabella Bignozzi
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Volumi consultati:
Pasquale Di Palmo, Breviario delle rovine, postfazione di Rodolfo Zucco, Edizioni Medusa, 2021
Pasquale Di Palmo, Venezia. Nel labirinto di Brodskij e altri irregolari, Unicopli 2017
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi, 1991
Iosif Brodskij, Poesie 1972 – 1985, a cura di Giovanni Buttafava, Adelphi 1986