02 Giugno 2020

Nuovo Vocabolario del Virus: “Patria”. Sacrificare se stessi per il futuro di figli sconosciuti. Anche se abbiamo massacrato tutti i padri siamo tutti padri della patria. E Petrarca è il nostro antidoto

Patria: Patria è la terra dei padri, che scoperta, Vaterland – noi italiani, di fatto, i padri li abbiamo decapitati, evirati – come Crono taglia le palle a Urano – per questo il nostro istinto patrio è nullo. Sull’Altare della Patria, la patria è stata dissanguata, sacrificata alla divinizzazione dello Stato. Non ci piace l’autorità: se non balugina un poco di grandezza è perché non sappiamo riconoscerla. Il virus, secondo i pubblicitari di regime, avrebbe dovuto consolidare l’istinto patrio: alle partite della Nazionale – collante patriottico primario – si è sostituito lo svolazzare delle Frecce Tricolori. Che il Tricolore sia legato all’epica napoleonica e che la prima Repubblica Italiana sia nata nel 1802 con Napoleone Bonaparte presidente, sotto tacco di Francia, è un dettaglio che occorre ricordare. Divisi su tutto, c’è chi il 2 giugno, al posto di inneggiare alla Repubblica, rimpiange la monarchia sabauda.

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Ciascuno, in Italia, fa patria a sé, la sala di casa è il Parlamento, il bagno il Gabinetto, l’erba del vicino, verde di rabbia, il campo del nemico, da eliminare. Non per forza è inesatta questa ostinata individualità, se conciliata con il culto dei morti – l’elmo del passato – e l’obbedienza verso i grandi. Patria, ancora, è sempre un discorso sul Padre – chi ti è padre?, da quale paternità ti elevi? Qui, piuttosto, si usa dire uomo delle istituzioni come una minaccia, come un’appartenenza a un ordine sacro – giustificato di per sé – senza pensare che l’istituzione può essere una costrizione, mera norma che si convalida divorando.

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Siamo un paese di condottieri. Di traditori, insomma – la patria si instaura nel tradimento, dacché non esiste una patria (per farne una devi sopprimerne molte) come non esiste una lingua e il patriottismo è un’area semantica del sentimento – per natura, transitorio, capriccioso. Il figlio non può capire le intenzioni del padre, deve disfarle, a volte, dissuaderle: il padre deve essere superato, massacrato. L’Italia è stata fatta – diciamo così, per vezzo agiografico – da Giuseppe Garibaldi, un avventuriero, nato nella Nizza francese, massone, rivoluzionario, che ha combattuto nel Rio Grande, nelle guerre italiane d’indipendenza, in quelle francesi. Dove c’era da menare, menava, partigiano di una idea più che campione di una nazione. La legione d’artisti “Assarabas” usa la celebre fotografia garibaldina di Gustave Le Gray, griffata “Maison Assarabas Paris”, per festeggiare la Repubblica. L’indole è chiara: non si tratta di dare omaggio a Garibaldi, ma di stimolare l’eroismo sopito nel petto degli italiani. Disprezziamo gli eroi, i santi, gli “uomini soli al comando”, ma infine è sempre un individuo a saltare la trincea del rancore, dell’ovvio, delle piccole cose di pessimo gusto, e a lanciare la carica. Rischiando la morte.

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Ma questo è un paese che con pervicacia ammazza i grandi e gli eroi, in favore del ‘bene pubblico’, esiliando il talento a un orpello, berciando di ‘meritocrazia’ dopo aver stilato enciclopediche tabelle e termometri che misurino il merito – commisurato, va da sé, all’utile. Un paese che ha bisogno di testimonial e non di testimonianze, di slogan e non di simboli.

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Ogni balbettio sull’Italia è “indarno”, d’altronde, inutile, invano, lo sapeva anche Petrarca. Nel canto 128 del Canzoniere, è assemblata la bellezza del nostro paese (“Ben provide Natura al nostro stato”) e l’autoritaria debolezza dei suoi governanti, la cupidigia dei potenti (“Vostre voglie divise/ guastan del mondo la piú bella parte”), la violenza, lo sperpero dei migliori (“Or dentro ad una gabbia/ fiere selvagge et mansüete gregge/ s’annidan sí che sempre il miglior geme”). È come se gli italiani avessero una congenita incapacità ad accudire l’Italia, più vasta delle proprie peculiari passioni. La memoria della morte dovrebbe convertire la ferocia dei potenti in atti di bene, in slancio alla sapienza (“Al passar questa valle/ piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno,/ vènti contrari a la vita serena;/ et quel che ’n altrui pena/ tempo si spende, in qualche acto piú degno/ o di mano o d’ingegno,/ in qualche bella lode,/ in qualche honesto studio si converta”), ma l’urlo di Petrarca (“I’ vo gridando: Pace, pace, pace”, che pare la chiusa della Terra desolata di Thomas Eliot) è sgozzato. Uomo che ha varcato la peste nera, smorzando il male in lirica, Petrarca potrebbe farci da antidoto, ma cosa lo dico a fare.

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D’altronde, il discorso sulla patria ha a che fare con la morte. Per cosa sei disposto a morire? Per quale vita sei pronto alla morte? Patria significa sacrificare se stessi per il futuro dei figli, sconosciuti – in questo senso, siamo tutti padri della patria.  (d.b.)

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