18 Ottobre 2024

“Non restare a piangere sulla mia tomba”. Nephesh, ovvero: rianimarsi tra le mura di un cimitero

Vivere in lutto è non essere mai soli. La presenza dei morti ci accompagna nei minuscoli interstizi dei giorni.

(Cristina Rivera Garza – da L’invincibile estate di Liliana)

Ardua impresa, parlare di un soffio, di un’anima che si interroga assieme ad altre anime sulla morte al tempo della clonazione e del cyborg. Questo è Nephesh, drammaturgia itinerante, tanatologica, per voci, suoni e poesia.

Un gruppo di persone incontra un uomo all’ingresso di un cimitero; l’uomo osserva i volti come se ritrovasse dei compagni a lungo attesi, me tra quelli. Indossate cuffie audio, ci invita a seguirlo; varchiamo l’ingresso verso un viale di pini, dietro i suoi passi; dagli auricolari parte un dialogo a due voci che da quel momento ci accompagnerà per quasi due ore.

Il cimitero che ci accoglie è il Monumentale di Ravenna, muto agglomerato di nuove e antiche sepolture. Sono le 5 del pomeriggio di un giorno feriale, camminiamo tra le tombe rischiarate dal sole, confortati da cuffie regolabili e ingentiliti sguardi. Immersi nella trasmissione in Bluetooth, siamo nel flusso sonoro di una drammaturgia che si compone di un dialogo a due voci più incursioni vocali al femminile, montaggi sonori e musica. La scena è il cimitero a circa tre chilometri dalla città, le luci sono le ultime onde di un sole autunnale, gli spettatori gli innumerevoli, idealmente infiniti defunti. Tra i protagonisti, la morte è al centro dei cerchi che si allargano e si restringono nei transiti e nelle soste del gruppo.

È un’opera che incontra una metafisica sonora e poetica, interroga la disanimazione dell’uomo e lo snaturamento della morte in un teatro non così tetro come s’immagina. Il titolo recita “Proteggere l’ombra”, il segreto che in ciascuno di noi parla con la morte, più spesso nel sogno, nell’inconscio, nel ricordo silente.

Assieme a venti persone, ho vissuto una sinestesia, nello sdoppiamento fisico tra l’isolamento audio e gli occhi in cerca di altri occhi, in una comunione percepita in modo irrazionale e pure affettivo. Nei passaggi più angusti dei sotterranei, nei versi più bui della narrazione o all’imbocco di una corsia evitata per anni, qualcuno ha pianto, qualcun altro lo ha abbracciato; i più senza mai disunirsi si sono scambiati sguardi di riconoscenza, come se avessero di fronte a sé l’evidenza della vita al cospetto di una morte così vasta come quella intorno.

Un gruppo di sconosciuti diventa così una piccola comunità che si riconosce, nell’incontro con la popolazione dei morti. Il personale si fa collettivo, il quotidiano si volge al sacro, in un tardo pomeriggio di composta serenità. Camminiamo tra corsie alberate, loculi e tombe; ascoltiamo le voci trasmesse in cuffia – tenui, lentamente scandite, credibili – sostiamo davanti all’ossario secolare, odoriamo da un piccolo flacone che ci attende ai piedi di un muro ognuno il proprio risvegliato ricordo. Improvvisa m’assale la voglia di urlare e rompere la finzione che sempre tutti ci investe; invece taccio – onoro gli inviti a danzare su un piccolo prato, a osservare i volti e le espressioni – nel procedere di quella che poco a poco si rivela terapia di gruppo, preghiera, gioia dell’antico e dell’ignoto, arte della morte; mi dispongo ad accogliere il soffio, a stroncare sul nascere parole avverse – che insidiano la via dell’individuazione – come storytelling, performance, ed afferrare del sacro che aleggia un lembo mai dissolto, il numinoso che Jung considerava la cura della malattia psichica.

Si avverte sui volti uno spaesamento emotivo e psicofisico, forse la caduta dentro la propria intimità, i propri ricordi, le paure, senza parole e pochi contatti – qualcosa d’insolito e inatteso – ognuno separato dal rumore esterno da apparecchi che comunque uniscono, conducono un insieme. La via dell’individuazione devia dai convincimenti del presente, l’equilibrio dei movimenti è cambiato perché l’ambiente acustico ora è chiuso al suo interno, nuove condizioni pneumatiche dell’udito disorientano. Chiusi nelle parole e nei suoni, lasciati a silenzi interiori e ai ritmi della pulsazione cardiaca, in un ideale solitudine di gruppo. Tutto il rumore che ci orienta nei giorni è sottratto poi ricreato solo per udirne l’inganno.

I suoni sono molteplici e spazializzati. Spiazzanti, ci spingono la testa al cielo per capire quanto sia basso un elicottero solo immaginario, gli occhi alle mani del vicino convinti che gli stia suonando il telefono. Volano mosche inesistenti, frastuona la città, ma solo nei nostri cervelli, intorno è il silenzio, lo scricchiolio inudito della ghiaia sotto le suole, in una progressiva trasfigurante quiete che non somiglia già più alla morte.

L’ambiente sonoro è opera di Francesco Tedde assistito da Cecilia Pellegrini: ricreato, missato e montato con estro e sapiente manipolazione, per uno straniamento dei sensi, confusi dai richiami del reale. Le musiche accompagnano il percorso passando dall’“Orfeo e Euridice” di Gluck a Philip Glass attraverso una varietà di generi e di stili che include anche l’ormai nota Passacaglia della vita.

Il cammino accorpa e disperde il gruppo, mentre le due voci proseguono un dialogo intimo e allo stesso tempo familiare. Un “Io-pensiero” parla al suo doppio, la Voce. È un dialogo interiore dove Nephesh, il soffio, l’anima, si fa coscienza; si confronta con il pensiero comune, tessendo una trama tra il presente e l’eterno che idealmente incorre sulle ali della poesia. La voce di Gemma Hansson Carbone intona versi sublimi e dicerie sulla morte, a compendio poetico, a riassumere e sparigliare pensieri e luoghi comuni sull’aldilà.

“Non restare a piangere sulla mia tomba, non sono lì, non dormo. Sono mille venti che soffiano, sono la scintilla diamante sulla neve, sono la luce del sole sul grano maturo. Sono la pioggerellina d’autunno quando ti svegli nella quiete del mattino… Sono le stelle che brillano la notte. Non restare a piangere sulla mia tomba, non sono lì, non dormo.”

(Canto Navajo)

Ascoltiamo tecniche di tumulazione e inumazione nelle diverse culture nel volgere dei secoli. I numeri della morte, i milioni di antenati sotto i nostri piedi, la nostra stessa fine – con dovizia di soluzioni – viene proiettata in futuro interiore sul quale suonano i versi di Paul Verlaine:

“Si sono sciolti in un’assenza spessa,
L’argilla rossa ha bevuto la bianca loro natura,
Il dono di vivere è passato nei fiori!
Dove sono dei morti le frasi familiari, l’arte, le anime singolari e i profumi?
Tutto va sottoterra e rientra nel gioco”.

E ancora si cammina, sfilano al nostro fianco e ci osservano le fotografie dei morti impresse sulle lapidi; immortalano centinaia di volti in espressioni quasi sempre fiere o sorridenti, a deplorare nel preciso istante dello scatto qualunque sospetto di fine.

Svoltando un angolo, dall’ultimo loculo di una lunga murata mi coglie la foto di Giuseppe Miccoli, un uomo di 62 anni a me ignoto. Mi strappa un pensiero di lutto astratto, per tutti i morti mai conosciuti che riemergono in lui. È troppo, mi dico, e scendo veloce le scale verso il piano basso.

Declina il sole, i passi ancora tra le ombre dei morti, attenti a non calpestarne il soffio, sempre con parole in cuffia, delicate, piane, mai esposte a intonazioni liturgiche; parole soffuse e profuse che da sole sarebbero bastate a fare di questo lavoro una lunga invocazione ecumenica; si ha il tempo di ammirare il rosso padiglione della parte antica sopraelevata, percorrendo con lo sguardo il loggiato tempestato di busti celebri ed epitaffi della storia. Dall’ampio ballatoio antistante, la città rivela alcune cisterne lungo il Candiano, agli avamposti del porto, e schiera i suoi gabbiani verso il mare, presagi del rientro nella quotidiana sera. Passa lenta la prua di una nave indecifrabile e colorata nella luce sporgente del tramonto. Questo vediamo dall’alto oltre le mura della città dei morti.

Al crepuscolo ci si congeda scambiandosi un fiore, cercando l’uscita al baluginare di pochi lampioni, assieme a qualcuno che da sconosciuto ora appare quasi un amico. Questo è Nephesh – Proteggere l’ombra, per la regia di Alessandro Renda e la drammaturgia di Tahar Lamri. Un’opera sonora, umana e dionisiaca, di una lievità rifrangente, vibrante. Un cammino psicotropo per rianimarci nell’Oltre, con gli Altri.

Michele Montanari

*Sono in corso fino al 23 ottobre le repliche di Nephesh – Proteggere l’ombra   

Le fotografie nell’articolo sono di Serena Spadavecchia

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