Se Herman Melville dovesse tornare oggi negli Stati Uniti credo che rimarrebbe deluso. O forse impazzirebbe e andrebbe a far crociere nel Mediterraneo per ritemprarsi e lanciare qualche pagina contro il postribolo del pensiero educato sui giornali.
Mi spiego. C’è il New Yorker, c’è il suo archivio online dovete leggete le sensazioni di Updike su Melville e la più recente frittata di una professoressa. Io ho rispetto per i professori – mi hanno insegnato loro tutto, da quando avevo cinque anni fino a ieri, fino a un saluto al telefono: da un altrove all’altro, senza doveri di comunità è rimasta un’amicizia o due, di quelle che contano.
Perciò una cosa la devo dire. Il New Yorker che ha la tattica degli americani di dare largo spazio al giornalista d’occasione per consentirgli di cavar fuori qualcosa di buono dalla sua testa (specie se vuota) ha rasentato il ridicolo. La cosa è penosa perché celebrare il bicentenario con un discorsetto senza capo né coda, quando in archivio hai gente come Updike, è penoso perché con la professoressa passiamo mezz’ora senza sentirci irrobustiti. Leggere il suo pezzo con cura, verificando i testi, ti fa passare un’ora. Il risultato non cambia. Vien voglia di andare a leggere Melville originale, allo stato brado, su archive.org dove trovare le sue lettere stampate da Yale nel 1960. Niente di meglio di scovare il nucleo di un autore nella sua fase giovanile, non domata.
Mi è rimasto il vezzo universitario, perdonatemi. Vi farò leggere un po’ di testi, tradotti per la prima volta in italiano.
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La pitonessa che scrive sul New Yorker ci racconta tutto con mano femminile e bisogna esserle grati: chi lo sapeva che Augusta, sorella e aiutante segretaria di Herman, morì a 54 anni di tumore al seno? Chi ci aveva mai raccontato che Lizzie, sposata a 25 con Herman che ne aveva 28, soffriva di fibroadenoma e allattava i figli senza trovare scuse o pappe alternative? Solo una donna può avere occhio per il dettaglio. Solo lei riesce a mettere il dito nella piaga: perché fu una nipote e non un nipote a bruciare le lettere di Herman alla moglie, alla madre, alla sorella? Perché? La risposta è implicita nella domanda.
Melville non è lo Stendhal che tenta il romanzo con Armance e arriva alle frasi interrotte all’hotel de la Mole e al gioco di sguardi dalla torre di Parma: Melville non ha voglia di costruirsi un metodo a partire dalla conversazione femminile e dal matriarcato.
La cosa è estremamente curiosa perché ci lascia immaginare che gli Stati Uniti dell’Ottocento siano stati meno matriarcali di quanto lo siano oggi, quando sono a conduzione femminile, a partire dalle famiglie. (Il ciuffo arancione al governo è solo un tocco pittoresco, la struttura del paese è diversa)
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Insomma, oggi dobbiamo fare i buoni, abbassare le orecchie e sentire la lezione della professoressa su Melville e il bicentenario: “Ho nuotato in mezzo alle biblioteche ha scritto una volta Melville. Leggendo alcune parti di Moby-Dick sembra di guardare un fuoco d’artificio virgiliano, una stella filante veterotestamentaria, un’esplosione di razzi shakesperiani incapsulati in bottiglie di vetro, tutto un sibilo, un fischio. Hai come la sensazione che d’improvviso il direttore dello spettacolo possa venir fuori e dire basta. Certo c’è esibizionismo in Melville, ma è così perché la sua erudizione se l’era sudata. E i recensori contemporanei trovarono folle tutto quanto: stile maniacale, come una lepre sotto la pioggia di marzo pazzerello”.
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Il punto è un altro: va benissimo il riguardo al dettaglio ma serve anche la visione d’insieme. Invece la professoressa dà solo una lettura Pierre che poi è l’opera più stramba di Melville perché segna la fine della presenza femminile nei suoi romanzi. E pensare che Herman si era imbarcato per la Polinesia a 23 anni quando non riusciva più a fare l’impiegato d’ufficio. Aveva conosciuto gli indigeni delle isole di Typee e di Omoo. Ne aveva ricavato due romanzi, tra 27 e 28 anni. Vendette benissimo: i lettori americani, prima di gongolare per Lolita, leggevano e rileggevano le pagine del baldo Herman con la sua bellezza locale. L’aveva ribattezzata, più per cercare un nomignolo amoroso che per verve da conquistatore coloniale in terre vergini, Fayaway. Fatina-che-si-allontana.
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L’articolo celebrativo del centenario qualcosa la racconta, nella sua lungaggine. C’è il trafiletto malvagio col quale un giornale di New York raccontò del matrimonio. Era il 1847, il nostro aveva 28 anni e i due libri gli creavano molte invidie intorno. Le malvagità e le cattiverie della stampa democratica servivano a creare il caso letterario.
Come questa: “Il signor HERMAN TYPEE OMOO MELVILLE si è recentemente unito in vincolo matrimoniale davanti alla legge con una giovane signora di Boston. FAYAWAY onesta e abbandonata certamente saprà consolarsi intentandogli causa per non aver mantenuto la promessa”. Esempio classico di deficienza giornalistica: Melville stava fermando la latinizzazione delle lingue sperdute sulle isole, ballando coi candelabri in testa insieme alle balinesi nei giorni di festa…
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Tutto qui. Se volete intendere Melville, andate a caccia delle fobie americane: leggete pure la professoressa e le sue sottigliezze, ma soprattutto riprendete i pensieri di Updike che invece scrive un pezzo coi fiocchi cercando di capire perché i romanzi senza donne di Melville siano più angusti, quasi omosessuali. Se di un autore non si prende in rassegna tutta l’opera, ma solo una parte – come fa la professoressa – il ritratto è manchevole.
Siccome poi i libri non mi bastano, vi faccio ingolosire traducendo un pezzo di una lettera allo zio materno Peter Gansevoort Melville. Il nostro aveva 27 anni, insegnava a scrivere ai bambini e raccontava allo zio i suoi pensieri di fine anno sulla scuola: “Sono d’accordo riguardo allo strapotere di certi diavolacci all’interno delle scuole statali. Gli oratori si mettano pure in fila a declamare sulla benedizione dell’istruzione diffusa su tutto il nostro Paese; lasciate che i saggisti riempiano le loro riviste di aggettivi che portino al settimo cielo il nostro sistema educativo – ma quando vi riconducete alla pratica, tutta questa vostra teoria combattiva, fatta di speranze elevate, tutta questa teoria ne esce sbiancata”.
Melville aveva già intuito dove portava la logorrea dei puritani su rivista. Se tornasse oggi a New York, non direbbero che è pazzo (è fuori moda). Lo obbligherebbero a sentire un corso di educazione civica da qualche professoressa che lo rimetta in riga.
Andrea Bianchi
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Herman allo zio Peter Gansevoort, Lansingburgh 29 maggio 1846
Mio caro Gansevoort – non vedo l’ora che siano passate tre settimane e penso a quando allora aprirai questa lettera in uno di quei distretti di Londra, i piacevoli hamlet dei quali leggiamo nei romanzi. Ad ogni modo, prego il Cielo che le cose vadano per il meglio e che tu ti rimetta presto in salute. Ricorda che la compostezza, anche mentale, è tutto. Non dovresti pensare a noi quaggiù finché non ti sei rimesso in sesto. Per quanto mi riguarda, la mia vita sinora viaggia su un buon treno. (…)
Qui la famiglia va bene – benché poi siano tutte prese dal taglio e cucito. Augusta sarà madamigella per le nozze di Miss C. Van. R. Proseguono i preparativi.
La gente qui è tutta in delirio per la Guerra in Messico. Ardore militare dappertutto dentro la società – immaginati la faccia col cerone rossiccio di un colonnello di pattuglia che spunta dalla divisa – e poi ragazzi che vogliono andare in guerra a far chissà che punteggio. Non si parla d’altro che degli “antri di Montezuma”. E sentire poi le folle che blaterano di quegli spazi che conoscono solo in via d’immaginazione, mi fa sembrare la cosa come se si trattasse di un’altra Versailles dove la nostra feccia democratica va a rifarsi la verginità di notte [where our democratic rabble meant to ‘make a night of it’ ere long]. – Il più che dubbio Generale Veile l’altro giorno ha continuato col suo parossismo da guerra d’invasione proseguendo sino a Washington. Il suo obiettivo è ottenere una commissione di volontari da queste parti e mettersene al capo entro il prossimo autunno. – Seriamente, qualcosa di grosso è lì lì per succedere. La Guerra Messicana (benché le nostre truppe si siano comportate bene) di per sé non vale nulla – come una scintilla che fa scoppiare qualcosa ben più grande, direbbe giustamente l’autore dei nostri proverbi [Giacomo 3:5] – e c’è qualcuno che sappia dove si andrà a finire? Una rottura con l’Inghilterra? O con qualche altra potenza? Perbacco! C’è qualcosa in serbo per noi, una Waterloo in stile Yankee? – O pensa un po’ a una bagnarola degli yankee che si prende la sua mazzata in mezzo Atlantico da parte degli Inglesi. – Signore, il giorno è giunto, ormai si parlerà di noi come dei vecchi conquistatori asiatici morti in battaglia dei quali non si riesce a contare chi sia ferito e chi morto – tanto da far sembrare agli occhi dei ragazzi a scuola la battaglia di Monmouth [1778] come una piccola recita – quando le canne ricavate dal buon legno della Costituzione compariranno sì nei libri per la scuola in quanto canne: ma di bamboo. – Ho finito il foglio – Dio ti benedica mio caro Gansevoort, e ti rimetta di nuovo in sesto.
Herman Melville
Typee sta venendo fuori con bel coraggio – quasi uscita la seconda edizione. Non devo chiederti di raccogliere ogni voce in giro a Londra sul suo conto, che sia voce scritta o detta a voce.
* traduzione italiana di Andrea Bianchi
**In copertina: Herman Melville secondo Carson Ellis