Eternata nei tratti anticlassici dell’Antigrazioso di Umberto Boccioni, Margherita Sarfatti – eminenza grigia di Benito Mussolini – diviene manifesto futurista di una femminilità nuova. Donna del futuro.
Scrittrice e direttrice di giornale – a capo di «Gerarchia» – indomabile salonnière e impeccabile critico d’arte, con riservata grazia conforme al lignaggio veneziano-giudaico, del Boccioni custodirà gli ardori artistici più di quelli erotici. La passione fra i due, fuoco fatuo, si ossiderà fulminea. Col duce, inversamente, arderà fino alle braci di un amore ormai inumato.
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Futura, futurista, futuribile, nel 1934 fa rotta verso il totem dell’avvenire: l’America. Nel folto delle sue sconfinate accezioni. Virtù del verbo, la Sarfatti s’imbatte nel ‘miracolo della lingua’ che tutto unifica, adegua, conforma oltre la razza, le origini. Più del lignaggio, oltreoceano, poté il linguaggio. Accenna a Leopardi – “L’uomo, la lingua e la nazione per poco non sono la stessa cosa” – nel cuore del suo diario di bordo, L’America, ricerca della felicità, una volta sbarcata dal Rex, sbornia di lussi e fregi tricolori. Testimonianza che travalica ogni moderno canone di correttezza, il testo – in origine pensato per l’editoria statunitense – sarà pubblico nel 1937 per Mondadori e rivive oggi per Liberilibri, avventura intellettuale di dama d’alta classe, ornato della prefazione di Pietrangelo Buttafuoco.
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Ufficiosa first lady in visita ufficiale, nell’orbita di tre mesi Margherita volteggia lungo quell’America che ciascuno crede tale unicamente per la contrada che ha abitato. “L’America è una tradizione orale, e in parte arcana, per soli iniziati” – annota. Fasciata in haute couture firmata Schiaparelli, siede alla Casa Bianca con i coniugi Roosevelt, è protagonista di conferenze sul culto della donna fascista in prestigiosi club femminili, con garbata ma decisa distanza rispetto alle propaggini femministe delle colleghe americane – signore il cui ‘diritto alla felicità’ è stabilito ope legis, dalla Costituzione.
E mentre nel paese per cuori fast le rivoluzionarie flappers si fanno pioniere del divorzio facile onde ovviare al tolstojano e “sempiterno dramma dell’alcova”, lei – Eva contro Eva – si rivolge devota a Mussolini: «Non sei il mio Signore e forse un poco anche il mio Dio, no?».
Keep smiling! è il sibilante motto delle hostess a stelle e strisce che accompagna il tour della Sarfatti, di cui registra puntuale l’‘infermieristica dedizione’ per il viaggiatore – al tempo in cui lo spostamento aereo è privilegio consacrato alle élite e interdetto alle masse neoproletarie.
Vaga dunque per quell’America che solo una manciata d’anni prima, con rifinita intimità di dettagli, è immortalata negli scritti di Annie Vivanti – pure patrocinante la causa fascista –, senza mai cedere, entrambe, alle facilonerie del linguaggio d’oltreoceano.
A fare da chiosa all’inappuntabile cronaca di Margherita, che canta l’America – ‘entità assoluta e introvabile’ perduta fra geometrie inorganiche, estetica del progresso e senso storico di un paese incline a nobilitarsi invecchiandosi – l’avvicendarsi del costante parallelo con l’imperiale Inghilterra, businessman vs gentleman. Infine, una riflessione dagli accenti toquevilliani sulla civiltà bianca:
“Per conto mio, vado orgogliosa di questa vitalità e diffusione della mia civiltà bianca, grazie alla quale trovai in tutta America lo stesso mio abito fisico e spirituale, con lo stesso taglio di cravatte e d’idee. […] Ne traggo auspici per la lotta contro nuovi affioramenti di barbarie, in noi e fuori di noi, e per la difesa contro altri ideali di altri colori; forse, contro la civiltà gialla di domani; chissà, forse, contro la minaccia negra di un altro giorno. Ché, essendo anzitutto italiana, per questo io mi sento poi anche latina, europea e bianca, sodale a gradi con queste civiltà”.
Proverà quindi senza successo a evitare la rottura fra Roosevelt e Mussolini, ormai perduto nella corsa verso Hitler. «L’America non conta nulla» sarà la risposta del duce (come ricordato nel volume Margherita Sarfatti: La regina dell’arte nell’Italia fascista).
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Al ritorno, sarà paria in patria – Mussolini ne sostituirà la figura con quella di Claretta Petacci – prima dell’espatrio, per sfuggire alle leggi razziali a Parigi, quindi in Sudamerica, dove inaugura una relazione d’amicizia con le sorelle Ocampo e una nuova stagione di vita, a proprio agio fra artisti e intellettuali. A Roma, del resto, era abituata a ricevere ogni venerdì, in via dei Villini, salotto di regime. Madrina del gruppo Novecento, fra le sue stanze gravitavano Marinetti, Boccioni e Gino Bonichi, Ezra Pound e Bontempelli, il controverso Corrado Alvaro, ma anche Malraux, Gide e Colette per parte parigina, Axel Munthe e Curzio Malaparte, le russe Zinaida Gippius e Tatiana Suchotina, figlia di Tolstoj.
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La stagione dell’amore col duce – di cui nel 1925 pubblica la biografia Dux, caso editoriale; «Mi ha messo in pigiama» dirà lui – è invece ormai sciupata, ridotta a smunta memoria. Non avanzerà altro che un mucchio di appassionate lettere (gli archivi sono conservati al Mart di Rovereto) consegnate all’amica Ada Negri, con la richiesta, disattesa, di distruggerle. Lo stesso farà Mussolini con i suoi diari, eleggendo la poetessa a custode delle proprie parole.
“Io pure son della tua milizia: palese e segreta. […] Vedevo la tua testa quadra di romano apparire e sparire nel mare tempestoso delle teste: uno tra mille, Tu. E ti vedevo passare fra le braccia tese in duplice fila, nel magnifico saluto romano, come sotto un duplice arco di trionfo, arco di ghirlande umane, materia viva che tu sai plasmare”
scrive Margherita con devozione di amica e amante, negli anni dell’ascesa al potere. E lui, con fervore:
“Mio amore, il mio pensiero, il mio cuore ti accompagnano. Abbiamo passato ore deliziose. […] Ti amo molto, più di quanto non credi. Ti bacio forte, ti abbraccio con tenerezza violenta. Stasera prima di addormentarti pensa al tuo devotissimo selvaggio, che è un po’ stanco, un po’ annoiato, ma tutto tuo, dalla superficie al profondo. Dammi un po’ di sangue dalle tue labbra. Tuo Benito”.
Ma il selvaggio è ormai mutato in uomo pubblico, appartiene a tutti, dunque più a nessuno.
“L’uomo pubblico nasce pubblico… è come il poeta” diceva.
Fabrizia Sabbatini
*In copertina: Felice Casorati, Ritratto di Hena Rigotti, 1924