In famiglia, avevano un certo genio per i neologismi. Il nonno, Thomas Henry Huxley, rabbioso divulgatore delle teorie di Darwin – che lo riteneva “uomo nobile, dall’intelligenza rapace come un rasoio” –, anticlericale, presidente della Royal Society, aveva forgiato il termine agnostico. Lui, Julian Huxley, ha coniato la parola transumanesimo. Nel primo capitolo di New Bottles for New Wine, edito nel 1957 da Chatto & Windus, Londra, che s’intitola, appunto, Transhumanism, Julian Huxley spiega al mondo nuovo che il nuovo motto per “adempiere consapevolmente al proprio destino” sarà I believe in transhumanism, ovvero: “trascendere se stessi… la specie umana può, nella sua interezza, trascendersi. L’uomo resta uomo, realizzando nuove possibilità adatte alla sua nuova natura”.
Bisogna fare attenzione alle parole: meno impulsivo del nonno, altrettanto penetrante, Julian Huxley è sempre vago, raffinato, elegante, bizantino; sa decorare con artificio i concetti più estremi, dimostra, con la grazia di un pio didatta, che tutto è detto ‘a fin di bene’, fatto per la pace nel mondo e lo sviluppo della buona morale. “Una nuova comprensione dell’universo è avvenuta grazie alle conoscenze acquisite negli ultimi cento anni, realizzate da psicologi, biologi e altri scienziati, da archeologi, antropologi, storici. Essi hanno definito la responsabilità dell’uomo: essere il tramite per il resto del mondo nel compito di realizzare le proprie potenzialità intrinseche nel modo più pieno possibile”. Come dargli torto? Chi non vuole “realizzare pienamente le proprie potenzialità”? Chi non desidera “far emergere le qualità latenti nell’uomo e nella donna… sviluppare il talento e l’intelligenza connaturati nei bambini” e “alleggerire la miseria, la povertà, la malattia”, convertendo la crudele asserzione di Hobbes, “secondo il quale la vita umana non è che ‘violenta, brutale, ingiusta, breve’”? Morale della retorica: “Grazie alla scienza anche i meno privilegiati capiscono che non è giusta la malattia, la denutrizione, che occorre godere dei benefici concessi dalle applicazioni della tecnica”. Insomma: vuoi la pillola rossa o la pillola blu?
Biologo, genetista, attivista, divulgatore dal talento cristallino, Julian Huxley è morto a Londra, il giorno di San Valentino del 1975. Era nato 87 anni prima, in estate, percorrendo una carriera pressoché estasiante: studi a Eton e a Oxford – con un passaggio presso la Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli –, diventò, in sequenza, segretario della Zoological Society of London, membro fondatore del Political and Economic Planning (un think tank costituitosi nel 1931 con l’intento di guidare i piani sanitari, finanziari, agronomici del governo britannico in UK e nelle colonie), primo direttore dell’Unesco, fondatore del WWF. Incidentalmente, vinse anche un Oscar per il miglior documentario: lo conquistò nel 1938 con The Private Life of the Gannets, un film sulla vita delle sule (il che rimarca il talento di Julian per la divulgazione). Anche soltanto mettendo in pila questi incarichi si comprende come l’impegno scientifico di Huxley sia teso a realizzare una precisa visione del mondo, a stabilire i canoni di una società ‘giusta’, o meglio, ‘pura’. La ricerca scientifica ha per fine, infine, la conversione delle masse, la loro gestione.
Resta da dire che Julian Huxley – membro, in ogni campo, della crema dell’intelligenza anglofona: mentore di Konrad Lorenz, amico di George Bernard Shaw e (almeno per un po’) di H.G. Wells, nei tardi anni Venti aveva frequentato i circoli di Virginia Woolf e conosciuto William B. Yeats – credeva nel controllo delle nascite e, in genere, nella ‘società del controllo’, era certo che i proletari fossero dannati da una tara genetica da eliminare, fu vice presidente (1937-1944) e presidente (1959-1962) della British Eugenics Society (che dal 1989 si chiama in modo più candido: Galton Institute), che ha avuto tra i suoi membri di spicco Neville Chamberlain, Winston Churchill, John Maynard Keynes. Dal momento che Hitler aveva, per così dire, ‘lottizzato’ il termine razza, Julian Huxley ne coniò un altro: gruppo etnico; le idee divergono sullo spettro degli illuminati e delle illuminazioni, ma non sono, in filigrana, del tutto diverse.
Bizzarrie apparentemente contraddittorie: Julian Huxley è pressoché scomparso dall’editoria italiana (vent’anni fa le Edizioni di Comunità hanno stampato Noi Europei. Un’indagine sul problema “razziale”, il libro del 1935 “contro le posizioni hitleriane”), ma la nota Wikipedia che lo riguarda è lunga il doppio di quella del fratello Aldous, che tutti conoscono. Questioni di eminenza. Di fatto, Aldous Huxley ha tradotto in romanzo le idee del fratello: Brave New World, uscito nel 1932, dipende da What dare I think?, il saggio, pubblicato l’anno prima, in cui Julian, in modo piano, efficace, mai esplicito, organizza il proprio pensiero. Tradotto quasi subito da Giacomo Prampolini per Hoepli, nel 1935, come Ciò che oso pensare, torna oggi per Gog Edizioni, con un’introduzione di Lorenzo Vitelli che racconta, in sostanza, perché Julian Huxley è il profeta del pensiero ‘dominante’ di questi tempi: “Questi progetti transumanisti – la compenetrazione tra uomo e macchina, le modificazioni del genoma umano, la ricerca della vita eterna, la colonizzazione spaziale, la progettazione di interfacce cerebrali che ci permettano di controllare i sistemi digitali attraverso i pensieri – oggi sono inseriti nell’agenda di molti Ceo, ingegneri e venture capitalist della Silicon Valley”.
Il libro di Huxley si legge in un soffio, è limpido, primaverile, privo di inquietudini dirette. Eppure, dietro la dizione, irenista, “Umanesimo scientifico”, Huxley ipotizza la religione della scienza esatta – “è dato progettare un’associazione che generi l’entusiasmo e incanali la devozione a guisa di un giovane ordine religioso, ma che da una parte non cada nei pericoli del dogmatismo, dall’altra non diventi troppo conservatrice o terrena?” –, una pratica della propaganda che alieni la singolarità nella convenzione delle convinzioni create a tavolino da altri, una élite – “è possibile organizzare un’opinione collettiva… è possibile durante l’educazione infondere nella media dei ragazzi e delle fanciulle un gusto per i diversi valori…” –, la necessità (dice lui) “di cambiare l’attuale carattere della razza umana, per condurla verso nuove forme dell’evoluzione” e “prolungare la vita – il cosiddetto ringiovanimento” sviluppando il “campo della medicina”. Mutamento della razza, desiderio di immortalità, governo della scienza: benvenuti in questo mondo.
Ne era consapevole, iena che setaccia i germi dell’era disfatta, Michel Houellebecq: ne Le particelle elementari dice del libro di Julian Huxley, “vi si trovano suggerite tutte quelle idee sul controllo genetico e sul miglioramento delle specie – ivi compresa quella umana – che il fratello tratterà nel suo romanzo. Tutto ciò viene presentato senza la minima ambiguità, come un fine augurabile, verso il quale è opportuno tendere”.
I viaggi in Unione Sovietica – con qualche perplessità sul delirio del dogma – dimostrano l’indole ‘socialista’ di Huxley; le reiterate depressioni – vinte anche a colpi di elettroshock – una predisposizione all’abisso. La ‘conservazione’ della natura mirava, in sostanza, al controllo del selvaggio, all’idea che un Eden rinnovato è possibile, dove l’uomo non sia il nuovo Adamo, ma l’autentico dio. Mentre Julian pubblicava If I Were Dictator (1934), un’utopia che dimostra perché “l’applicazione del metodo scientifico in una società umana può eliminare in concreto ogni tentativo di dittatura”, Aldous, invitato al “Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, a Parigi, diceva, con piglio sacerdotale, che “La conoscenza di scienze particolari e soprattutto l’atteggiamento scientifico sono elementi fondamentali nella nostra cultura. Una delle più grandi disgrazie della nostra epoca è che in tutti gli stati, e specialmente negli stati totalitari, il pensiero scientifico viene rispettato solo quando affronta problemi di natura puramente tecnica o di natura generale, non direttamente legati alle vicende umane”. I fratelli andavano a braccetto; Aldous morì per primo, il 22 novembre del 1963, lo stesso giorno in cui fu assassinato J.F.K. e andava all’altro mondo C.S. Lewis. Il tumore alla laringe gli impediva di parlare, la moglie gli iniettò una dose di LSD.
Negli anni in cui Julian Huxley propagandava la religione della scienza, Lev Šestov, pensatore russo di origini ebraiche trasferitosi a Parigi, pubblicava libri abbacinanti ed estremi, di bronzea bellezza, Potestas Clavium, Sulla bilancia di Giobbe, Atene e Gerusalemme, per lo più incompresi. Metteva in ridicolo le sorti progressive della civiltà umana, i filosofi da cattedra, non aveva paura della profezia. Insegnava che “Dio pensa e parla in modo completamente diverso dalla necessità”, che “la ratio ci minaccia del più grande dei pericoli e bisogna combatterla giorno e notte senza arrestarsi davanti alle difficoltà e ai sacrifici”, che “bisogna mandare al diavolo l’onestà intellettuale e imparare a parlare con Dio come gli parlavano i nostri antenati”, che “il peccato mortale dei filosofi non è la ricerca dell’assoluto: il loro torto maggiore è che, quando constatano di non aver trovato l’assoluto, sono pronti a riconoscere come assoluto uno qualunque tra i prodotti dell’attività umana la scienza, lo Stato, la morale, la religione ecc”.
Credo che la scelta sia qui, a tratti letale: tra il pensare di Šestov, un vagabondaggio “al di là dei limiti del comprensibile”, incuneati nella contraddizione e nel nonsenso, pellegrini, scalzi, dove l’odore di un dio boschivo si mescola a quello del massacro che incombe, all’odore avido delle locuste, oltre collina, o le rassicurazioni di Huxley. Le vie di mezzo sono per i sofisti da dibattito televisivo, che nulla rischiano, nulla soffrono. Tra transumanesimo e trasumanar il discrimine non è soltanto nel fine, ma nel salto.