Cos’è diventata la morte oggi? Perché è vietato parlarne? Che rapporto avevamo e abbiamo con lei? Ci ha pensato Philippe Ariès a rispondere, e l’ha fatto con Storia della morte in Occidente, disamina sulla dipartita dal Medioevo a oggi. Non abbiamo mai avuto un bellissimo rapporto con la morte, neanche nei secoli bui, ma mai come oggi ci è così lontana e nemica.
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Siamo arrivati ad amare la vita in maniera morbosa, e spesso non si accetta la morte non per paura, ma perché a un certo punto si tirano le somme, ci si guarda indietro, e si comincia a fare i conti con i propri fallimenti, con gli obiettivi non raggiunti, con i rimpianti, e si scopre che ormai è troppo tardi. Secondo Ariès, nella società industriale è diventato intollerabile non essersi realizzati, non aver dato abbastanza spazio ai sogni che si avevano quando si era giovani, e questo a volte può addirittura condurre all’alcolismo o al suicidio.
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“Le immagini della decomposizione, della malattia, traducono con convinzione un nuovo accostamento fra le minacce della decomposizione e la fragilità delle nostre ambizioni e dei nostri affetti”.
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Questo attaccamento deriva anche da un diffuso senso d’immortalità dovuto all’allungamento della prospettiva di vita. Il momento della morte sembra talmente lontano e procrastinabile da non pensarci.
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La morte è sempre stata presente in passato, era rappresentata, faceva parte della vita di tutti i giorni; il morente trascorreva gli ultimi momenti a casa, tra i suoi cari, a volte agonizzante, e partecipavano anche i bambini, cosa oggi impensabile. È stato il sociologo inglese Geoffrey Gorer ad aver mostrato come la morte sia diventata tabù, e come, nel XX secolo, abbia sostituito il sesso quale principale divieto. Ne parla nel libro The Pornography of Death, dove addirittura paragona il lutto solitario e pieno di vergogna alla masturbazione.
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Ariès sostiene che tutto ciò abbia avuto inizio negli Stati Uniti agli albori del XX secolo. È qui, infatti, che la vita ha cominciato a dover sembrare sempre e comunque felice. È qui che la noia e la tristezza hanno cominciato a essere ospiti non graditi, ed è qui che la felicità è divenuta la nuova religione.
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In questo saggio si parla anche della storia dei cimiteri, come e perché sono diventati quello che sono oggi, come sono cambiate le usanze in merito ai cadaveri. Per esempio, solo nel XVIII secolo nacque un vero e proprio culto dei morti – e con esso i cimiteri – manifestazione religiosa comune ai miscredenti e ai credenti di tutte le confessioni.
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“[…] nel Medioevo i morti furono affidati, anima e corpo, ai santi e alla Chiesa; poi che i progressi della coscienza religiosa hanno meglio distinti, o addirittura contrapposto, il corpo e l’anima dei defunti: l’anima immortale era oggetto di una sollecitudine di cui testimoniano le fondazioni pie dei testamenti, mentre il corpo era abbandonato alle anonime fosse comuni”.
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Ariès esamina tutti i cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli, compresi quelli che riguardano la perdita di dignità del morente, che nel tempo ha perso ogni diritto e si è ritrovato non più a comando della propria morte, non potendo più organizzarla, ma in balìa di dottori e parenti, spesso privato anche della possibilità di essere a conoscenza del proprio imminente decesso. Per la prima volta si muore davvero soli, e quando tutti si sono ormai voltati dall’altra parte.
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Tutto ciò è anche causa – non certo colpa – del progresso. Oggi, grazie alle cure mediche sempre più all’avanguardia, è difficile capire quando si morirà, c’è sempre speranza e possibilità di salvezza. Ariès considera soltanto il cancro la nuova e vera faccia della morte, quel male ancora chiamato ‘incurabile’, la vera sfida della medicina moderna. È il cancro, oggi, a far più paura della rappresentazione di uno scheletro o di una mummia.
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E qui entriamo in una sezione molto interessante del saggio, legata alla figura dei medici e degli infermieri, che sembrano aver preso il posto dei preti. Sono loro i moderni ma glaciali traghettatori di anime. Sono loro che spesso decidono di tenere all’oscuro il paziente non rivelandogli la sua condizione. Sono loro che ritardano il momento di avvertire la famiglia. Non si comunica più niente per paura di far perdere il controllo emotivo sia al malato sia alla famiglia. Negli ospedali non sono ben accette scene drammatiche, è sempre meglio far finta di niente, per il bene di tutti, per evitare grida, pianti, lacrime ed esaltazioni. Morire è diventato imbarazzante.
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“Una volta la morte era un volto familiare, e i moralisti dovevano renderlo orribile per fare paura. Oggi basta soltanto nominarla per suscitare una tensione emotiva incompatibile con la regolarità della vita quotidiana”.
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E il malato, se dovesse capire che la sua ora è giunta, non può comunque accettarla, non può arrendersi, non può chiudere gli occhi e lasciarsi andare voltandosi verso il muro, no, deve continuare a fingere, a lottare anche se non vuole, altrimenti rischia di sembrare folle agli occhi degli infermieri, colpevole di rinunciare alla vita, vergogna inaccettabile. (L’episodio è reale ed è avvenuto in un ospedale californiano).
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E non sarà un caso, aggiungo io, che dagli anni ’90 i nuovi miti siano diventati proprio i protagonisti di serie televisive come ER, Grey’s Anatomy, Dottor House. I medici sono diventati i nuovi dèi, icone, angeli a cui consegnarsi totalmente, possibilmente belli e sexy, per invogliarci ancora di più ad affidare loro anima e corpo.
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Insomma, in Storia della morte in Occidente appare chiaro che oggi l’importante è morire con dignità, facendo meno rumore possibile, che si sia consapevoli della propria dipartita oppure no. Ma ovviamente tutta questa negazione della morte conduce a un altro problema, al rifiuto del lutto, che è stato per secoli il dolore per eccellenza, che andava anche ostentato, e che oggi va nascosto. Bando alle condoglianze, alle lacrime, alla sofferenza, alla commozione. Ci si deve riprendere il più presto possibile, e se si vuole piangere, lo si deve fare in solitudine. Bisogna mostrarsi duri, forti, e non parlare con nessuno della propria perdita. La persona in lutto è considerata alla stregua di un malato contagioso che va emarginato. E in questo contesto, anche il cadavere deve essere truccato, ben lavato e ben vestito. Deve sembrare un non morto, una persona semplicemente assopita. Non esiste più l’esibizione della bruttezza del cadavere. In America si è arrivati addirittura all’imbalsamazione e alle funeral homes, mentre in Inghilterra alla più definitiva cremazione, considerata come il sistema più radicale per sbarazzarsi dei morti.
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Per concludere, la morte è diventata il grande assente, scomparsa com’è dalle nostre case e trasferitasi soltanto negli ospedali. La morte invidiata sembra essere quella che permette di dire “non si è accorto di nulla”, cosa che si augura anche a se stessi. E nel frattempo la malattia è diventata una lunga e interminabile agonia proprio perché si fa di tutto per ritardare il fatidico momento. La progressiva perdita della fede ha portato l’uomo a divenire nullità di fronte alla morte, mentre prima, credendo nell’aldilà, si considerava importante mantenere dignità e valore fino alla fine e oltre. Ma Ariès ci pone di fronte a una riflessione finale ben più triste e preoccupante: e se fosse proprio la negazione della morte a rendere l’uomo moderno sempre più nevrotico? E se fosse proprio il nascondimento del lutto a farci ammalare? La mancanza di sostegno in uno dei momenti più importanti e difficili della nostra vita può scatenare psicosi e isterie che si potrebbero protrarre per chissà quanto tempo.
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“Allora si arriva a chiedersi, con Gorer, se gran parte della patologia sociale di oggi non abbia le sue radici nell’evacuazione della morte fuori della vita quotidiana, nella proibizione del lutto e del diritto di piangere i propri morti”.
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Che la crisi della morte sia strettamente in relazione con la crisi dell’individualità che attanaglia questo XXI secolo?
Dejanira Bada
*In copertina: Damien Hirst, “For the Love of God”, 2007