Il nuovo capitolo di Joker (Joker: folie à deux) può certamente deludere chi era rimasto entusiasta dopo la visione del primo atto della storia.[1] In questo secondo capitolo, nella cornice plumbea e claustrofobica tipica anche del primo episodio, la storia di Arthur Fleck si svolge senza particolari sussulti nella mortifera routine della vita carceraria. Sembra tornato il clown fallito dell’inizio della storia, lo stupido che molti prendono in giro perché incapace di far ridere. Un individuo assolutamente innocuo, un carattere amorfo.
A turbare questa apparente normalità arriva a un certo punto una donna (Harley Quinn/Lady Gaga) che ammaliando il nostro clown da strada con sentite menzogne, riuscirà per un breve arco di tempo a resuscitare in lui lo spirito di Joker. Si tratta evidentemente di un cliché (l’amore di una donna come salvezza esistenziale per l’uomo, anche se qui si tratterebbe di una salvezza di segno negativo), ingenuità che lo spettatore dimentica presto per la qualità dell’interpretazione dei due protagonisti e l’intensità dei dialoghi (scritti a quattro mani da Todd Phillips e Scott Silver). Tuttavia in questo rapporto ciò che lascia perplessi, date le atmosfere molto cupe del film, è la scelta del dialogo musicato che spesso (troppo spesso) spacca come una frattura insanabile proprio i momenti di maggiore tensione drammatica della storia e dei dialoghi. Si tratta forse di uno stratagemma per abbassare (verrebbe da dire ridicolizzare) ironicamente quella tensione? Oppure per dare rilievo a Lady Gaga, giocando facile sulle sue doti canore (e magari strizzando l’occhio ai suoi fan) come avvenuto in un suo noto precedente film da protagonista (A star is born, 2018)? O piuttosto per sottolineare simbolicamente che molto di quanto avviene tra i due è qualcosa di scollato dalla realtà, frutto di fantasie condivise e distorte (una folie à deux appunto)? Si fa fatica a comprendere questa scelta, totalmente dissonante dal resto e da quanto visto nel precedente film, così l’effetto sullo spettatore dopo un po’ non può che essere di profonda frustrazione (tranne che, ovviamente, per gli amanti dei musical).
Ciò che rimane, al di là delle atmosfere riuscite, della tensione psicologica sempre latente nella storia, oltre che dell’ottima interpretazione dei due protagonisti, è il valore simbolico della vicenda narrata.[2] Solo una passione o un ideale che nascano dal profondo possono dar senso all’esistenza perché capaci di far entrare chi li vive in contatto con aspetti psicologicamente radicati in sé stessi. Oltre a questo, rimane la critica di una società caotica e superficiale, bisognosa di idoli da seguire per trovare una direzione nel proprio vivere quotidiano e incapace di vedere e accettare in queste fonti di ispirazione la presenza di aspetti più umani, proprio come accade al protagonista, amato a riconosciuto solo quando diventa Joker. Ciò lo rende un personaggio ancora più tragico, un essere in balia della folla (e dell’amata) che dello psicopatico del primo episodio non ha quasi nulla se non l’inquietante, fatua e grottesca risata.
Joker: folie à deux è dunque l’epilogo in tono minore di un reietto della società che riesce a riscattarsi agli occhi degli altri solo quando lascia emergere la sua parte peggiore, quella che incarna analoghi istinti della massa, ma che viene presto dimenticato o rifiutato quando lascia emergere il suo sé più empatico e compassionevole.
La conclusione del film mette la parola fine (fortunatamente) a quella che sarebbe potuta diventare una saga, come troppo spesso accade nel cinema di oggi. Ad un certo punto, infatti, durante e poco dopo la fine del processo cui va incontro Arthur Fleck per gli omicidi commessi, la trama arriva a uno snodo cruciale che lasciava aperti diversi scenari possibili. Todd Phillips ha scelto quello che non comprende ulteriori sviluppi, chissà se per convinzione, stanchezza o inconscio rispetto verso lo spettatore che non avrebbe digerito altre stonature e un’ulteriore riduzione dello spessore della personalità del protagonista, così potentemente tratteggiato nel primo film.
Un film dunque inferiore al primo, non solo per alcune scelte discutibili (prima tra tutte la scelte del formato musical) ma in generale per lo sviluppo della storia e per un’attenzione inferiore, o non altrettanto efficace come nel primo capitolo, alle dinamiche interiori del protagonista e alle loro evoluzioni, che cosi iconico lo avevano reso nell’immaginario di molti.
Marco Nicastro
[1] Tra i quali chi scrive. Vedi la recensione al primo Joker: http://www.psychiatryonline.it/node/8255
[2] Impossibile non ricordare alcune scene che toccano vertici di poeticità e che testimoniano il talento del regista. Si pensi a quando la protagonista, andata a trovare Arthur in carcere, disegna col rossetto sul vetro protettivo che li separa nella stanza dei colloqui la linea curva di un sorriso, che viene con naturalezza intercettato dal sorriso di Arthur-Joker fino a fondersi con esso; oppure l’espressione terrorizzata del volto di Arthur mente ascolta tremante e attonito, in uno stato quasi dissociato, l’uccisione di un suo compagno di carcere da parte dei secondini dopo che questi lo avevano poco prima brutalizzato e gettato come un oggetto sul fetido materasso della sua cella.